Il ritorno dei vinti

Arriva una terribile notizia dall’Occidente: Roma è assediata; a prezzo d’oro viene riscattata la vita dei cittadini, ma una volta spogliati sono di nuovo accerchiati, e così oltre ai loro beni perdono anche la vita. La voce mi muore in gola e i singhiozzi interrompono le parole mentre detto. La città che aveva conquistato l’universo intero cade sotto la dominazione nemica”. Ogni epoca ha il suo 11 settembre. Ma quello evocato dalle angosciate parole di San Girolamo è forse il più terribile: nel 410 d.C. Roma viene saccheggiata per la prima volta dopo ottocento anni dai Goti di Alarico. La città che aveva unificato e civilizzato il mondo, inviolabile ed eterna, cadeva. E la fine di un ordine plurisecolare era illuminata dalle fiamme che bruciavano le case dei romani.
Iniziò così un periodo tra i più difficili nella storia dell’Occidente: le terre cui Roma aveva per secoli garantito pace e prosperità erano invase da popoli barbari, insanguinate da guerre e saccheggi, Oriente e Occidente si separavano definitivamente e il cristianesimo iniziava a dispiegare la sua forza rivoluzionaria. Da questo mondo in disfacimento ci è giunto un breve e incompleto poema, il De reditu suo, ripreso in questi giorni da Claudio Bondì in un film bello ed essenziale. L’autore è un patrizio originario della Gallia, Rutilio Namaziano, che per breve tempo fu a Roma Praefectus Urbi e pochi anni dopo il saccheggio decise di tornare in patria per valutare di persona le conseguenze del passaggio dei barbari. Il suo poema è dunque, prima di tutto, la storia di un ritorno a casa.
Inevitabilmente viene alla mente il nostos dell’epica greca, il ritorno degli eroi, scandito dall’attesa del ricongiungimento e dalla nostalgia per la patria lontana. Ma in Rutilio non c’è traccia di questi sentimenti, i suoi versi sono segnati soltanto dalla tristezza dell’addio, senza speranza di ritorno. E’ il racconto di un esilio, che nel film diviene una fuga dai sicari dell’imperatore. E in effetti, a ben vedere, Rutilio è un esiliato dal suo tempo. Perché di quel mondo nuovo che comincia appena a emergere dalla catastrofe del vecchio ordine, il nostro eroe è un avversario feroce. Il suo racconto diventa così un manifesto senza tempo del rifiuto del cambiamento, la fuga dalla modernità in nome di valori e ideali di un’altra epoca. E’ il primo grande poema sul tradimento della storia, il canto spezzato di una civiltà al tramonto, in cui si mescolano dolorosamente la nostalgia della perduta gloria e la constatazione della propria impotenza. Rutilio è uno sconfitto che attraversa un mondo sconvolto dai cambiamenti annotandoli diligentemente, ma senza accettarli. Arroccato nella presunzione della superiorità morale della vecchia aristocrazia, è incapace di individuare le forze che hanno preso il sopravvento, gli è impossibile alcuna analisi della nuova società che si va delineando e tanto meno è in grado di comprendere le cause della trasformazione.
Rutilio è costretto a un viaggio per mare perché le strade, una volta gloria di Roma, sono rese insicure dalla presenza dei briganti. Ogni luogo è segnato dalla decadenza, le città sono abbandonate o semidistrutte, infestate dai topi. Ma nemmeno questo riesce a scuotere la sua fiducia nel futuro – “ciò che non può affondare riemerge con forza maggiore balzando su dalle profondità ancora più in alto, e come quando inclinata assume nuove forze la torcia, più risplendente, già volta a terra, ora tendi alle altezze”. Di fronte alla rovinosa fine di un sistema, questo colto aristocratico preferisce rifugiarsi nelle parole d’ordine dell’ideologia senatoria. La galleria di ritratti degli amici incontrati nel viaggio gli offre l’occasione di esaltare le virtù di un mondo che non c’è più. Prigioniero dei suoi pregiudizi non gli resta che la fuga dalla realtà. Ed è così che, nella versione cinematografica, viene dipinto come un uomo in fuga alla ricerca di alleati per il suo disperato progetto di restaurazione. Ma gli amici di un tempo gli negano l’appoggio, scegliendo di ritagliarsi uno spazio nell’amministrazione imperiale. Rutilio li considera dei traditori e con indignazione rifiuta loro l’ultima stretta di mano. Va allora a trovare il vecchio Protadio, ormai al di fuori delle vicende politiche. Lo trova stanco, ma ancora fedele agli ideali di un tempo. Mentre Rutilio espone il suo progetto, Protadio gli indica un vecchio che col suo cavallo, sul ciglio della strada, ogni giorno aspetta il ritorno dei Goti per vendicare i suoi morti. “Lui ci seguirà senz’altro, perché è vecchio e pazzo come noi” dice Protadio. E quella sera stessa si toglie la vita, lasciando Rutilio a inseguire il suo sogno da solo. Così, quando giungono i sicari dell’Imperatore, all’uomo che fuggiva dal futuro la morte non deve essere sembrata il male peggiore.