Fine delle illusioni

Le immagini dei bambini rinchiusi nella scuola di Beslan gireranno il mondo ancora a lungo. Come la piccola vietnamita in fuga dal suo villaggio e i bambini ebrei dietro i recinti di Auschwitz, quei volti sono destinati a diventare simbolo di una tragedia che è già ora – con le cifre ancora provvisorie che parlano di 400 morti, 186 dispersi e 700 feriti – oltre la storia e otre la politica, immagine del male assoluto. Un confine è stato nuovamente oltrepassato.
Nel primo giorno di scuola dei bambini di Beslan finiscono molte illusioni. Finisce innanzi tutto l’illusione di un conflitto in qualche misura razionale e circoscritto, quello che oppone l’Occidente al terrorismo islamista, troppo a lungo e da troppi considerato come semplice conseguenza – forse non giustificabile, ma almeno spiegabile – della politica americana in Medio Oriente. Finisce l’illusione di un limite, di una misura, di una sia pure relativa razionalità del male. Finisce però al tempo stesso anche l’illusione della semplice risposta militare. Si mostrano infine, in tutta la loro gravità, gli effetti a lungo termine di una linea di politica internazionale, quella della guerra al terrorismo dell’Amministrazione Bush.
Una linea i cui esiti si possono ora osservare quasi in condizioni di laboratorio – prima ancora che in Iraq – nella Spagna della guerra contro gli indipendentisti baschi, nell’Israele della guerra contro gli indipendentisti palestinesi, nella Russia della guerra contro gli indipendentisti ceceni. Forse il termine “indipendentisti” non può essere applicato a tutti allo stesso modo, forse in un caso sarebbe più corretto parlare di terroristi, in un altro di nazionalisti, in un altro ancora di semplici estremisti. Resta però la necessità di mettere a fuoco quel che lega tutti questi diversi fenomeni e gli uomini politici che di tali antiche, diversissime e irrisolte questioni nazionali hanno fatto un altro fronte della guerra americana: José Maria Aznar, Ariel Sharon, Vladimir Putin.
Tutti e tre questi uomini politici non hanno esitato a sostenere la politica dell’Amministrazione repubblicana – chi più chi meno apertamente, per ovvie ragioni – pur di ottenere l’inserimento dei loro avversari interni nella categoria del terrorismo internazionale, nemico dell’intero occidente e come tale posto automaticamente fuori da ogni spazio di mediazione politica. Le notizie sempre più frequenti dei contatti e delle alleanze tra queste formazioni nazionaliste e la rete di Al Qaeda, prima semplicemente inimmaginabili, sono il risultato di questa perniciosa dinamica internazionale. Si sono così moltiplicati i nemici e si è unificato il loro fronte, mentre con uguale determinazione si procedeva a dividere e indebolire il proprio campo. La spirale di violenza e l’estendersi della minaccia all’intero pianeta sono dunque l’esito scontato di un approccio incredibilmente rozzo, che conosce solo le sottigliezze del fanatismo, la casistica gesuitica dei peccati e dei peccatori, ma non contempla alcuna alternativa allo scontro mortale, sempre e ovunque uguale a se stesso. E’ una guerra infinita e interminabile, che si autoalimenta nella misura in cui abolisce a priori ogni possibile spazio di manovra politica, bollandola come cedimento al nemico. E definisce come nemico chiunque non sia già attivamente schierato dalla propria parte.
Difficilmente ora, con negli occhi le immagini dei bambini di Beslan, si potrà seriamente mettere in discussione il sostegno occidentale alle scelte di Vladimir Putin. Né si potrà indulgere oltre nel difendere le ragioni della causa cecena. Certo si leveranno alte le proteste e le critiche per la condotta del Cremlino, che in Cecenia fa impallidire le ruspe, le barriere e le rappresaglie più o meno indiscriminate di Sharon. Ma alla fine dei conti l’Occidente non potrà che stare dalla parte del “tiranno”. L’Iraq sta lì a dimostrare ogni giorno quale sia l’alternativa, e l’Afghanistan non offre uno spettacolo più rassicurante. Purtroppo, non c’è deriva autoritaria che tenga, dinanzi al rischio di uno stato fallito nel cuore dell’ex Unione sovietica, proprio là dove si giocherà una delle partite decisive – forse persino più che in Medio Oriente – contro le forze del fanatismo islamista.