Le radici spirituali di Pera

Tutti sanno che il trattato costituzionale europeo, firmato venerdì a Roma, contiene due preamboli. E tutti sanno che molto nei mesi scorsi si è discusso circa l’opportunità di inserirvi un riferimento alle radici cristiane d’Europa. A questa discussione si è riferito il Presidente del Senato Pera in un recente intervento ad Assisi, ripreso il giorno della firma della costituzione dal quotidiano Avvenire. Ora, non è il caso di essere filosoficamente ingenerosi con il Presidente Pera, anche perché in questi giorni l’Europa è assai poco generosa con i filosofi italiani¸ ma è chiaro che qualcosa, nel suo intervento, non va. La formula del trattato richiama le “eredità culturali, religiose ed umanistiche dell’Europa”. Pera nota che tale riferimento è “generico, e anche ridondante (le eredità umanistiche, ad esempio, non sono anche culturali?)”. Caro Presidente, come Lei sa, da: ogni A è B non consegue che ogni B è A. Se l’eredità umanistica è anche culturale, non ogni eredità culturale è anche umanistica, sicché il dettato costituzionale, lungi dall’essere nel punto ridondante, si limita a evidenziare con il secondo aggettivo (umanistico) a quale specifico alveo culturale l’Europa con più forza si riferisce. C’è di più. La formula del secondo preambolo dice: noi, padri costituenti europei, ci ispiriamo al “patrimonio spirituale e morale” d’Europa. Lei lamenta che qui non si dica anche: patrimonio “religioso”. Ciò che colpisce è che in poche righe Lei dimentichi la Sua stessa osservazione sulla ridondanza: forse che il patrimonio religioso non è anche patrimonio spirituale? (A meno che Lei non volesse mettere “patrimonio religioso” invece di “patrimonio spirituale”, a pena però di cancellare poco liberalmente il riferimento a qualunque lascito spirituale non religioso). Ma non basta. Volendo denunciare la genericità del preambolo, Lei dice: non siamo solo figli della Grecia, ma anche di Roma. Giusto. E siamo anche figli della tradizione giudaico-cristiana. Giusto. Però, caro Presidente, Lei che non sopporta le ipocrisie del “politicamente corretto” ci spiega perché questa volta si nasconde dietro il “religiosamente corretto” e, per esempio, dei comandamenti di Mosè sceglie di citarne solo alcuni, quelli oggi più accettabili qua talis – e il cui contenuto morale, peraltro, non è esclusiva della tradizione cristiana? Perché ci presenta una tradizione religiosa cristiana opportunamente depurata da qualche sgradevolezza? E perché usa la furbizia di dire che il principio della laicità dello Stato sta nel quae sunt Caesaris Caesari del Vangelo, e omette di dire che uno sguardo alla tradizione dell’Occidente dimostra che la Chiesa ha sì tenuto alla distinzione temporale e spirituale (con qualche pontificia eccezione), ma non tanto dal non avocare a sé (finché ha potuto) un potere assai poco laico di direzione spirituale dei sovrani cristiani? Infine, perché usa la furbizia di concludere con la disinvolta affermazione (disinvolta è il termine “istituzionalmente corretto” che sta per falsa) che la tolleranza è una virtù cristiana? Non risulta infatti che rientri tra le virtù teologali o cardinali. Non risulta che in questo senso sia stato interpretato (per esempio da Agostino) l’evangelico compelle intrare. Risulta invece che la tolleranza sia stata dall’Europa conquistata a fatica, nonostante le resistenze della Chiesa. Come si spiega questa Sua disinvoltura, caro Presidente Pera? Caro Presidente, si può infine condividere il ragionamento con il quale dimostra quel che si apprende al primo anno di Giurisprudenza, e cioè che ogni legislazione include valori per il fatto stesso che considera meritevoli di tutela o di promozione (e cioè dotati di valore) determinati atti o comportamenti. E con ciò? Il punto non è “da che parte”, come Lei scrive, entrino questi valori. Lei dice genericamente dalla società, e di questo Le siamo grati: l’esempio dei comandamenti mosaici poteva far temere che Lei contemplasse ancora il caso di una diretta promulgazione divina delle tavole della legge. Il punto però non è ‘da che parte’, ma in quale modo, secondo quali procedure e quali garanzie per le minoranze: tutto quello che dovrebbe stare a cuore ad un liberale come Lei, insomma. Se però Lei teneva solo, con questo Suo autorevolissimo intervento, a ribadire che “non possiamo dimenticare né la tradizione greco-romana, né la tradizione giudaico-cristiana”, ebbene concedo totum. C’è però qui un mio amico filosofo, di origine ebraica e di famiglia portoghese, un marrano nato ad Amsterdam, dove la famiglia è stata costretta ad emigrare: è pallido e magrolino, e non se la passa tanto bene. Fa il molatore di lenti, ma è un uomo molto colto. Ha pubblicato un solo libro, anonimo, con nome falso dell’editore e luogo errato di stampa, in cui difende libertà di pensiero e di parola, e la cosa è riuscita assai sgradita, sicché credo non pubblicherà più nulla, in vita. È un uomo mite, ma la tradizione giudaico-cristiana gli ha dato fama di filosofo empio e maledetto. Ecco, Le chiedo: innestiamo anche lui, i suoi libri, nel rigoglioso fusto di radici dell’Europa? E non è bello pensare che l’Europa sia lo spazio in cui a gente come il mio amico Spinoza la si lasci in pace senza che qualcuno monti su accuse di immanentismo, apostasia, ateismo (allora), di immanentismo, relativismo, nichilismo (oggi)?