Risotto al tartufo

Era appena nato e il suo splendore si propagava nelle tenebre della terra, lì sotto, dove le radici della possente quercia lo nutrivano. L’acerba infanzia di Tartufo, smeraldo dei funghi, gemma delle gemme, invocava l’età della ragione. L’età in cui capisci che la vita è infallibilmente tua e te la giochi come vuoi e con chi vuoi. Crescere il più in fretta possibile per diventare il numero uno. Perché numero uno si nasce. Non è un assurdo, è un dogma. Lui ne era orgogliosamente consapevole.
Cambieranno le stagioni, verranno tempi inimagginabili, vi saranno tempeste lunari, cicloni, inondazioni, capovolgimenti totali ma lui sarà sempre il vincitore, perché lui ingigantisce ed esalta tutto ciò che sfiora. Il suo profumo è arte, è godimento supremo, è orgasmo del palato allo stato puro.
E cresceva attaccandosi alle mammelle della quercia o del tiglio o del pioppo o del salice, a quelle radici i cui capezzoli sprigionavano linfa vitale. E quando la terra tremava non era un terremoto a scuoterla, era la vita tumultuosa che ferveva intorno a lui.
Ecco chilometri di carovane di formiche in andirivieni, cariche di tutto il possibile per costruire un tetto alla loro casa in una spasmodica corsa contro il tempo. Si incrociavano, si sfioravano, si scambiavano notizie. Così il diamante dei diamanti captava, attraverso le loro antenne, il frusciare contro la quercia delle prime raffiche di una pioggia in avvicinamento che avrebbe trasformato la terra, suo guscio amniotico, in nutrimento fertile. E le raffiche di vento incuneandosi nel labirinto di cunicoli portavano fino a lui l’ossigeno della vita.
Tre lune dopo le ultime piogge, il silenzio scendeva su tutto. E la nebbia copriva la terra. E la notte ammantava ogni cosa. Poi il silenzio si incrinava all’improvviso. Un fruscio, un ramo spezzato, l’ansimare di un cane. Il muso sbucava da un banco di nebbia. Non vedeva ma sentiva. Avvertiva l’aroma. Si fermava. Tornava indietro. Richiamava il suo padrone. Lo precedeva. Era lì. Proprio lì che bisognava cercare. Aprire la terra, dolcemente. Sembrava crepuscolo ma era notte vera. Le luci arrivavano da lontano, forse dalla città. E’ in quel momento che Tartufo nasceva in questo mondo. Scavalcava l’ostacolo. Lasciava quella terra che lo aveva cresciuto, quell’intreccio di radici che lo avevano allattato.
In una dissolvenza incrociata la notte se ne andava, la quercia sbiadiva al ricordo e Tartufo era prigioniero in una ampolla di vetro attorniato da chicchi di riso. Per un giorno almeno, finché il riso si ubriaca di profumo. Poi la cipolla appassisce insieme al burro nel tegame di terracotta. E il riso si accompagna alla cipolla e si inebria di vino bianco e poi di brodo fino a cottura.
Intorno l’aria è sospesa, il mistero di quella gemma preziosa sta per essere svelato. Si chiudano le porte e le finestre perché neppure un gemito di quell’aroma si disperda nell’esterno ingrato d’accogliere tale miracolo. E dopo aver tolto il risotto dal fuoco aggraziandolo con un fiocchetto di burro, un cucchiaio di crema di latte e un pugnetto di parmigiano grattato, che le sottili lamelle planino sulla superficie increspata.
Nessun palato può restare indifferente. L’estasi è questa. Chiudere gli occhi per un attimo e volare alto accanto alle bianche aquile reali.