Dopo il diluvio, chi?

Lo tsunami che ha travolto l’Asia è stata la prima catastrofe globale, come hanno testimoniato le prime pagine della stampa internazionale e come i suoi commentatori non hanno mancato di sottolineare. Ma il disastro che ha unito per la prima volta il mondo dall’occidente ricco ai paesi arretrati, democrazie mature e autocrazie orientali, non avrà alcuna conseguenza degna di nota su quella stessa economia globale che pure è la vera responsabile della sua unificazione. Non è detto però che non abbia invece conseguenze di grande rilievo sull’asse d’equilibrio della politica internazionale, dopo i fasti dell’unilateralismo americano e la veemente campagna contro le Nazioni Unite guidata dall’Amministrazione Bush.
E’ singolare che la prima catastrofe del secolo apertosi con l’11 settembre sia stata un evento naturale. Dopo l’attacco alle Torri gemelle, che peraltro suscitò allora considerazioni sostanzialmente analoghe sull’unità del mondo brutalmente certificata dalla tragedia, l’apocalisse non è venuta dalle terribili armi di distruzione di massa in mano a qualche oscuro despota o dal fanatismo di nuovi kamikaze iper-tecnologici, ma da un evento imprevedibile eppure antico come la Terra. Anche l’11 settembre del 2001 il presidente Bush era appena stato eletto ed esattamente come allora la sua prima reazione è stata clamorosamente inadeguata, salvo poi riguadagnare di colpo il centro della scena. Ma la scena, anche a causa delle scelte maturate a Washington in quelle drammatiche giornate del 2001, è ora profondamente cambiata.
Accantonata la pesante campagna contro Kofi Annan, abbandonato il progetto iniziale di una nuova coalizione dei willing sui soccorsi (naturalmente a guida americana), nel vertice di Giakarta del 6 gennaio gli Stati Uniti hanno dovuto dare infine il loro assenso alle decisioni da tempo maturate nella comunità internazionale. Il coordinamento degli aiuti è stato affidato alle Nazioni Unite e proprio Kofi Annan ha cominciato subito a dettare l’agenda delle priorità, raccogliendo un consenso pressoché unanime, dall’impegno per l’abbattimento del debito a quello per la costruzione di un sistema di rilevazione in grado di prevedere per tempo simili catastrofi e allertare i paesi coinvolti. Il protagonismo dell’Unione europea (che stanzierà 1,5 miliardi di euro, pari alla metà degli investimenti complessivi stabiliti a Giakarta), il ruolo di Francia e Germania, la linea ambiziosa e da tempo annunciata da Tony Blair in vista del prossimo G8 sull’abbatimento del debito dei paesi poveri (ma anche la necessità di trattare con Cina e Indonesia) hanno dunque determinato una sensibile correzione di rotta da parte dell’Amministrazione Bush. Specularmente, la prova di unità e determinazione data dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale non può lasciare indifferenti. Non meno difficili sono però le prove successive, a cominciare da quella dei fatti che riguarda le decisioni prese a Giakarta.
La vittoria di Abu Mazen in Palestina e la nuova linea del governo di unità nazionale israeliano, insieme con il rinnovato protagonismo internazionale di Tony Blair, permettono qualche timido moto di ottimismo anche in chi – come noi – continua a sostenere la necessità di un riequilibrio multilaterale della politica internazionale. Un riequilibrio che al vertice di Giakarta ha dato i primi segni di un possibile assestamento, ma che solo l’esito delle elezioni irachene e della successiva stabilizzazione permetteranno di valutare realisticamente. Questa è infatti, com’è ovvio, l’ultima e più decisiva prova cui è chiamata la comunità internazionale. Una prova da cui nessuno può pensare di chiamarsi fuori, se davvero si vuole evitare una nuova, destabilizzante stagione dell’unilateralismo americano.