Ratzinger e la misura della fede

Da un certo punto di vista, non sarebbe potuta andare meglio: un papa che, ancor prima della sua elezione, chiarisce subito come stanno le cose e dà addosso al liberalismo. Ecco fatto. La reazione indignata è già pronta, impacchettata, precostituita: abbiamo (avremo) a che fare con un papa oscurantista, reazionario e antimoderno non solo per quanto concerne quegli aspetti della modernità con i quali la modernità stessa, da un po’ di tempo a questa parte, ha un rapporto perlomeno problematico, ma nei confronti di uno dei suoi portati più preziosi, irrinunciabili e venerabili: il metodo di organizzazione sociale e politica fondato sulle libertà del singolo, sui suoi diritti e sulla loro intangibilità. Leggendo e ascoltando alcune reazioni all’indomani dell’elezione di Joseph Ratzinger al soglio pontificio, ho avuto l’impressione di essere di fronte a una sorta di reazione pavloviana. Il Berlusconi del “terrore, miseria e morte” pare aver fatto scuola.
Ratzinger stava parlando in una situazione del tutto particolare: l’omelia della messa “Pro eligendo romano pontifice”, di fronte ai cardinali che, di lì a pochi minuti, sarebbero entrati in conclave per eleggere il successore di Pietro e di Wojtyla. Oltretutto, non stava parlando a braccio, bensì commentando una delle letture della messa, tratta dalla prima parte del capitolo quarto della lettera di Paolo agli Efesini, da cui provengono gran parte delle espressioni usate da Ratzinger per illustrare il suo pensiero. E se il “relativismo”, denunciato più e più volte quale iattura dei nostri tempi dal cardinale ora papa, fosse un sinonimo proprio della superficialità facilona con cui talvolta si è propensi a giudicare senza un minimo di studio, criterio e attenzione? Ho provato, allora, a rileggere con attenzione il testo dell’omelia di Ratzinger. Mi pare di aver capito alcune cose.
La prima: Ratzinger sta rivolgendosi ai “cristiani”, e segnatamente ai cattolici, e sta descrivendo non solo e non tanto un fenomeno riguardante la società nel suo complesso, quanto una dinamica interna alla stessa comunità ecclesiale. Sono i cristiani stessi che rischiano di essere “sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, e ciò accade proprio in relazione al loro essere cristiani, ai criteri con cui si definisce la “maturità”, la “pienezza” della fede.
La seconda: il liberalismo è citato da Ratzinger quale estremo di una delle possibili traiettorie dello “sballottamento”. Anzi, mi correggo: non si tratta tanto di un estremo, quanto di un punto d’approdo intermedio, alla cui ‘destra’ campeggia una sua caricatura, essa sì – parrebbe di capire – estrema: “dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo”. Noto anche che su nessuno dei termini citati nella frase in oggetto e nelle seguenti Ratzinger esprime giudizi di valore. In sintesi: non sta svolgendo una critica motivata di marxismo e liberalismo (e collettivismo e individualismo radicale; e ateismo e vago misticismo; e agnosticismo e sincretismo); li sta piuttosto contrapponendo a illustrare alcune possibili traiettorie ondivaghe di quel fenomeno enormemente complesso cui, per praticità, possiamo attribuire il nome collettivo di “modernità” e nel quale ai cattolici d’oggi è dato di vivere.
La terza: Ratzinger sta richiamando i cattolici non a essere antimoderni (o segnatamente antiliberali), quanto piuttosto a non assumere categorie non religiose per definire la “misura” della loro fede e della loro tensione alla pienezza dell’umanità. Chiunque abbia in mente che cosa è occorso all’interno della riflessione teologica ed ecclesiologica in campo cattolico all’indomani del Concilio Vaticano II e la gran confusione che ne è scaturita può capire che significato abbia il richiamo di Ratzinger, il quale si pone oltretutto pienamente nel solco del magistero wojtyliano in materia. Ciò che definisce l’appartenenza alla chiesa non è e non può essere, dice Ratzinger, l’adesione a una ideologia mutuata da categorie politiche mondane, ma solo “l’amicizia con Cristo”. Questo è il punto fermo che, per Ratzinger, deve contrastare un “relativismo” presente innanzitutto nella stessa coscienza cattolica, quasi che esistessero criteri più importanti e fondamentali rispetto al rapporto, personale e collettivo con il divino nella persona di Cristo per instaurare la fede e la comunità ecclesiale. Essere cristiani, pare dire Ratzinger, è questione di adesione a Cristo e non a un modello politico per sua natura transeunte e mondano.
Poi, naturalmente, si può discutere del resto. Ad esempio, della felicità o meno della scelta del termine “relativismo” per designare ciò che Ratzinger sembra voler designare. Ricorderò, celiando, che l’infallibilità pontificia (e si potrebbe oltretutto notare che Ratzinger non era ancora papa quando ha pronunciato le parole incriminate) non si estende a questioni lessicali e grammaticali in genere. Si può discutere anche di quanto il Magistero, da almeno un cinquantennio, complessivamente ed esplicitamente apprezzi il liberalismo come forma di organizzazione politica e sociale (la quale, oltretutto, sembra essere la più efficace nel tutelare la stessa libertà religiosa dei cristiani). Si può discutere di quali siano le critiche indirizzate al liberalismo dal Magistero (in particolare da Wojtyla) e anche di quanto criticare alcunché non significhi affatto esserne oppositori. Si può discutere di quelle correnti teologiche che hanno tentato di porre l’adesione a modelli politico-sociali alternativi al liberalismo, se non suoi antagonisti, quale condizione essenziale dell’identità ecclesiale cattolica, e si può discutere di come verso tali correnti il Magistero non sia stato troppo tenero negli ultimi trent’anni.
Insomma, si può discutere.