Tre ipotesi sul caso Frigo

E’ una canaglia. Si farà un mese di carcere ed è anche poco”. Così Giancarlo Ferretti, team manager della squadra professionistica di ciclismo Fassa Bortolo, ha commentato qualche giorno fa, al termine delle tappe alpine del Tour de France, la notizia del fermo da parte della polizia francese del suo corridore Dario Frigo e della moglie, sulla cui automobile erano state ritrovate una decina di fiale di Epo, l’eritropoietina sintetica, sostanza dopante capace di “pompare” illecitamente globuli rossi nel sangue degli atleti e vero flagello del ciclismo da una quindicina d’anni a questa parte. Frigo era già stato arrestato e squalificato quattro anni fa durante il Giro d’Italia per analoghi motivi. Ora il ciclista oltre alla galera (che peraltro, contrariamente alla forsennata richiesta del suo team manager, non ha ancora subìto, essendo stato posto in libertà vigilata dal procuratore francese che ha seguito la vicenda) rischia la squalifica a vita dal professionismo. Giustamente.
Però in tutta la vicenda più ancora delle fiale in possesso di Frigo ciò che sconcerta sono le parole usate da Ferretti. Noi riusciamo a spiegarcele con tre ipotesi: la prima è che Ferretti sia un po’ (tanto) distratto, la seconda è che sia una persona di saldi principi morali tanto quanto il suo corridore, la terza adesso non ci viene in mente, ma certamente ci sarà.
Prima ipotesi: Ferretti è un po’ (tanto) distratto e Frigo gliel’ha fatta sotto il naso. Possibile? Nell’ipotesi che Ferretti sia un po’ (tanto) distratto, sì. Certo, bisogna presupporre nel team manager una miopia che rasenti la cecità: nel ciclismo professionistico ogni squadra, per ovvi motivi, segue la condizione e la preparazione fisica dei propri corridori con meticolosità, con continue analisi, con test sullo stato di forma. Inoltre, durante i grandi giri o le “campagne” per le classiche corridori, allenatori, meccanici, preparatori atletici, medici e personale di una squadra vivono, praticamente, in una sorta di comune, una carovana in cui stanno per settimane gomito a gomito, continuamente in contatto. L’Epo non è una pasticca di anfetamine: deve essere iniettata e l’organismo deve essere tenuto sotto controllo, giacché i rischi per la salute di una persona sana che la assuma sono elevati. Difficile pensare a una gestione autonoma e nascosta del doping da parte del corridore senza il coinvolgimento di ambienti della squadra e, quindi, almeno moralmente anche del team manager. Certo, a meno di supporre, come si premetteva, che quest’ultimo sia un po’ (tanto) distratto.
Oppure, seconda ipotesi, che sia una persona di saldi principi morali tanto quanto e forse più ancora del suo corridore dopato: che, cioè, sapesse tutto perfettamente e, quando il marciume è stato scoperto, abbia scaricato il disgraziato al suo destino, prendendo le distanze da lui con le parole che abbiamo riportato all’inizio e che, francamente, mettono un po’ i brividi, come sempre quando qualcuno si mette a gridare che qualcun altro dovrebbe andare in galera e a compiacersi della cosa. Poi, si diceva, ci sarebbe la terza ipotesi. Cioè, certamente ci sarà. Ma a noi continua a non venire in mente.