Agnoli e lumache di New Orleans

Pensateci: se l’acqua non bollisse a cento gradi, se la clorofilla non facesse il suo prezioso lavoro di fotosintesi, se la gravità non tenesse noi con i piedi per Terra e la Terra alla giusta distanza dal Sole, il mondo non sarebbe così com’è. Non ci sarebbe vita sulla Terra (la vita che noi conosciamo, con gli uomini, le lumache e tutto il resto). Cosa dimostra questo? Nulla, ovviamente. Ma per Francesco Agnoli (il Foglio, 31 agosto) dimostra invece che un disegno intelligente regge i fili dell’universo. Fa niente che dell’universo conosciamo (poco e male) una piccolissima porzione. Fa niente che lo stesso argomento potrebbe essere usato da una lumaca per dimostrare che l’universo cospira perché lumache esistano in questo piccolo angolo di mondo che è il nostro pianeta (senza acqua e senza fotosintesi niente insalata, e niente lumache), Agnoli – questo novello Newton del filo d’erba che Kant nella sua ingenuità pensava non sarebbe mai nato (e invece, ahinoi…) – arruola nello stesso reggimento San Tommaso e Newton, monsignor Landucci e Einstein, per sostenere che nessuna impresa conoscitiva avrebbe senso se non vi fosse una realtà da conoscere, che dunque la realtà c’è, che conoscere la realtà vuol dire conoscere il suo ordine e le sue leggi, e siccome di quell’ordine oggettivo e di quelle leggi non può essere l’uomo il creatore, ce ne dev’essere un altro: Dio. Facile, no?
Il guaio è che non è così facile: solo la disinvoltura apologetica può in tutta approssimazione sovrapporre e confondere ordine causale e ordine finale, riesumare la teleologia sorvolando su distinzioni elementari (tra fini immanenti e fini trascendenti, ad esempio), e liquidare come soggettivistica qualunque visione della realtà che non si fondi in Dio. Che poi, in verità, quello di Agnoli più che un Dio sembra essere un comodo Deus ex machina, “ciò che di più inconsistente si possa scegliere in una teoria che deve spiegare l’origine e la validità delle conoscenze”. Almeno secondo il giudizio di Kant, che così scriveva in lettera al suo amico Marcus Herz. Testardo com’era, vedeva nel ricorso a Dio non la risposta, ma ciò che impedisce alla filosofia di cercare una risposta.
Ma per Agnoli, Kant ha l’etichetta dell’infamia: è un soggettivista, uno di quelli che pensano che le cose sono fatte così come a noi piace di pensare che siano fatte. E invece il problema della conoscenza (“su cosa si fonda il rapporto fra ciò che in noi si chiama rappresentazione e l’oggetto?”) non si risolve – se si risolve – mettendo l’uomo al posto di Dio (o Dio al posto dell’uomo) e lasciando immutato il resto, bensì modificando i termini del problema, prendendo il problema da un nuovo lato.
Il lettore mi perdonerà se gli sottopongo un piccolo supplemento di esegesi kantiana, ma Kant la merita: è diventato suo malgrado il bersaglio di tutti coloro che, rivendicando un più schietto senso della realtà, risalgono da Nietzsche (via Schopenhauer) a Kant per stanare il primo responsabile del soggettivismo, e cioè del relativismo, e cioè del nichilismo contemporaneo. Dunque: nella frase citata sopra tra parentesi, Kant scrive: “ciò che in noi si chiama rappresentazione”. C’è un’esitazione, una presa di distanza, una perplessità. Kant vuole dire: se stiamo ai termini tradizionali del problema – di qua (di qua dove?) ci sono le rappresentazioni, la conoscenza; di là (di là dove?) ci sono le cose, la realtà – il problema non ha soluzione alcuna. Non si tratta perciò di stabilire chi detta legge (Dio, l’uomo), ma di ripensare quei termini – la rappresentazione in noi, l’oggetto fuori di noi. Di ripensare il loro rapporto, la loro collocazione.
Ma Agnoli non li vuole mica ripensare. No, lui li prende tal quali, e siccome ignora (consapevolmente o meno) come Kant abbia provato a farlo, ne ricava che Kant e la filosofia che da lui discende riduce la realtà a una nostra rappresentazione; e siccome anche un bambino sa che non possiamo determinare a piacer nostro la costante gravitazionale, dunque Kant ha torto, dunque c’è un ordine nelle cose che non dipende da noi, dunque a produrlo può essere solo Dio. Ci risiamo. Che genere di ordine sia e come ci stiano dentro gli uragani e gli tsunami (ma pure gli asteroidi), che cosa significhi che non dipende da noi, e chi sia questo noi (dentro cui, si ricordi, ci sono pure le lumache, in chissà quante morte a New Orleans), e chi o cosa sia il Dio che risolve comodamente ad Agnoli il problema della conoscenza (lasciando però aperto un mucchio di altri problemi), non importa poi granché: il più è fatto. L’odioso soggettivismo contemporaneo è confutato. Il quale soggettivismo è poi odioso non per sé, ma perché è parente stretto dell’individualismo, che invece è proprio odioso di per sé. Ed è lì infatti che Agnoli va infine a parere, con un finale salto della quaglia: all’ordine morale oggettivo, “che si impone di per sé”. Non c’entra nulla con tutto quanto Agnoli ha scritto prima, ma il direttore sarà contento.