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Perché i Ds offrono il collo al nemico

In queste settimane mi dolgo di non essere iscritto ai Ds. Perché sull’assalto mediatico portato a Giovanni Consorte e a Unipol vorrei capire meglio – cosa che si può fare solo dal “di dentro” – che cosa diavolo spinga mezzo partito o giù di lì a offrire il collo agli avversari. Avversari che stanno nella stessa coalizione e che hanno loro uomini alla testa di banche italiane senza che nessuno meni scandalo (sto chiaramente parlando della Margherita). E che sono poi sulla poltrona di comando di grandi e grandissimi giornali che si pretendono anch’essi “di sinistra”. L’avversione per D’Alema non può davvero giustificare una così cieca e talora persino complice acquiescenza a uno scempio che non solo grida vendetta per la storia di Unipol e per quella personale di Consorte, in nessun caso accostabili a personaggi “disinvolti” come Fiorani o a parvenu come Ricucci. Ma che, inoltre, presenta dei profili sempre più gravi, sistemici, che riguardano proprio il ponte di comando di quell’Italia che tra poco la sinistra potrebbe governare. E come, se è attraversata da una spaccatura tanto profonda sul mercato, le sue regole, i suoi protagonisti? Come, se si riduce da pecora ad accettare la vulgata secondo la quale l’opa su Telecom non fu qualcosa di cui essere riconoscenti al governo d’allora – che respinse le sirene torinesi e di Guido Rossi che volevano un no da Palazzo Chigi a un’operazione di mercato – ma invece un torbido affare di furbetti? Tanto vale allora dare l’Italia in mano a Marco Travaglio, scusatemi. Ed è per questo, che se fossi iscritto ai Ds non riuscirei proprio a stare zitto.
Ma rassicuratevi. Non perché pensi che c’entri un fico secco D’Alema. E tanto meno perché potrei pensare abbia bisogno di uno come me, per difendersi. Per tutt’altro. E mi spiego.
Le vicende recenti delle opa bancarie e di Rcs mandate all’aria dal circo mediatico-giudiziario confermano quella che in Italia è da sempre una regola aurea, quando si tratta di poteri cosiddetti “forti” che si tutelano. E cioè che i colpevoli è sempre meglio sceglierli che cercarli. Dopo la difesa a colpi di artiglieria del sindacato di Rcs; dopo la caduta di Fiorani, del quale sinché stava “in riga” la disinvoltura era lodata dagli stessi che poi l’hanno volta in infamia, non appena ha tentato un’operazione fuori dal “vuolsi così colà dove si puote”; dopo che anche la finanza rossa si è scoperta colpita e divisa, di fronte alla medesima tagliola applicata ad altri in precedenza; dopo tutto questo la sostanza vede un singolare impasto di gruppi industriali indebitati e banchieri dalle grigie performance (tranne Profumo) risultare intoccabile in Italia nel prossimo futuro. Non c’è da gioirne. Ma oltre all’elemento sostanziale ce n’è uno formale, che nei mesi ha iniziato ad appassionare gli esperti del diritto comparato. L’irruzione senza precedenti della legge penale ha reso i regolatori del mercato comparse all’ordine o alla mercè dei pm: un passo avanti ai loro provvedimenti dopo averne intuito i desiderata, per non perdere la faccia come nel caso della Consob; un passo indietro invece, convinti che autorità di vigilanza e pubblici ministeri siano e debbano restare due cose ben distinte, come nel caso di Bankitalia, che ne paga le conseguenze.
Con un risultato sempre più evidente. Com’era già avvenuto con la diatriba sul falso in bilancio, l’espulsione penale dalle società, comminata invece di un’opa obbligatoria quando si verifica un concerto, non risponde solo all’esigenza giustizialista di un sistema che rivela oggi verso il mercato la stessa ripulsa eticista che dodici anni fa mostrò verso i partiti. Fosse solo questo, le ondate moralistiche vanno e vengono quando una società ha storia democratica recente e istituzioni di carente radicamento: bisogna farci il callo e sperare nella miglior fortuna delle generazioni a venire. Ma emerge un fenomeno più preoccupante ancora, uno sviluppo sistemico che ha a che fare con il nostro ordinamento giuridico per come è concepito e interpretato dai suoi attori dominanti. E quando si tratta di ordinamento c’è meno da sperare negli effetti del tempo che passa, perché l’ondata di giustizialismo populista si riassorbe presto o tardi, mentre quanto al diritto positivo vale purtroppo quel che scriveva Goethe nel suo Faust: “Leggi e diritti si ereditano come un’eterna malattia. Si strascicano da una generazione all’altra, si propagano di luogo in luogo, piano piano. Così la ragione diventa assurdità, il pubblico vantaggio una calamità, e disgrazia risulta, essere un postero”. Il fenomeno sistemico emerso in questi mesi è che se già evidentissima appare la torsione del codice penale del 1989 quando si tratta dei delitti contro la persona, è assolutamente paradossale il suo esito quando entrano in campo i delitti contro il mercato.
Ci rifacciamo a questo proposito a un interessantissimo saggio comparato recentemente pubblicato sullo Harvard International Law Journal a firma del professor Máximo Langer, che insegna appunto diritto penale comparato alla University of California School of Law oltre che all’Università di Buenos Aires. Langer affronta con grande acume l’analisi dell’ibridazione che negli ultimi anni apparentemente è in corso tra il modello adversarial – accusatorio, in giuridichese italiano – tipico degli ordinamenti di Common Law, e quello inquisitorial – non c’è bisogno di traduzione – storicamente tipico dei paesi di Civil Law, dei sistemi romanisti e poi eredi del Code Napoleon ai quali apparteniamo anche noi, paesi cioè in cui non vale il precedente deciso in giudizio ma la fattispecie casuistica tipizzata e sanzionata in legge. Nei paesi di Common Law la procedura prevede sia nelle fasi preprocessuali che in quelle dibattimentali un confronto diretto ad armi pari e pari poteri di autoindagine dell’accusa e della difesa, pari anche rispetto al giudice che co-decide della colpevolezza, e alla giuria che stabilisce poi eventualmente la pena. E quando si dice che il giudice co-decide, si intende che lo fa quando non sono direttamente le parti tra loro a concordare attraverso il plea bargain, un vero e proprio accordo stragiudiziale che estingue il procedimento, naturalmente più efficiente in termini di minor sovraccarico procedurale, ma che soprattutto rifiuta di postulare l’esistenza di un pubblico ministero incaricato di accertare la verità e di un giudice incaricato poi di affermarla a tutela dello Stato. C’è un fossato ideologico e filosofico, a separare i paesi come il nostro di Civil Law – ancora eredi dello statalismo etico di Bodin e Hobbes e Hegel – da quelli di Common Law, figli di due grandi conati antistatalisti e libertari come la grande Rivoluzione liberale inglese del 1688 e la Rivoluzione americana del 1776.
Il professor Langer, con grande scrupolo e ricchezza di rimandi a dottrina e giurisprudenza, esamina con spirito alieno da pregiudizi se il nuovo codice italiano di sedici anni fa, in teoria improntato a un procedimento più accusatorio che inquisitorio, e con nuovi riti come il patteggiamento della pena, il procedimento per decreto e il processo abbreviato – in un quadro internazionale nel quale altri paesi di Civil Law compivano passi in qualche misura analoghi, come la Germania che introduceva l’Absprachen, la Francia la Composition e l’Argentina il Procedimiento Abreviado – configuri con successo un vero e proprio “trapianto modulare” del sistema accusatorio anglosassone, o se invece ci si sia limitati a una mera “traduzione legale”. La conclusione è spietata, purtroppo. Va nella seconda direzione. I sistemi inquisitorii tornano da noi a stringere le maglie a propria tutela, ammettendo il patteggiamento non oltre i cinque anni di pena una volta scattata la riduzione di un terzo, e continuando a prevedere che il pm abbia un ruolo preminente nella fase delle indagini, quanto il giudice nel riconoscimento della congruità di ogni eventuale accordo tra accusa e difesa. “E’ pressoché inevitabile, quando pubblici ministeri e giudici come in Italia continuano ad appartenere a un medesimo ordine con eguale reclutamento e carriera: i titolari dell’obbligatorietà di un’azione penale nell’interesse dello Stato sono storicamente e naturalmente vocati a concepirsi e pronunciarsi come depositari della verità, quella che naturalmente essi così concepiscono, ricercano e affermano, nella complessa interrelazione di convinzioni politiche ufficialmente negate e pressioni mediatiche di interessi economico-sociali, sotto il conclamato velo dell’interesse pubblico e anzi in suprema applicazione dell’imperativa norma statuale sovraordinata”. Non sapremmo dirlo meglio del professor Langer.
Si tratta di una conclusione molto preoccupante per chiunque pensa che gli ordinamenti moderni debbano esistere per difendere l’individuo dagli eccessi dello Stato, e non viceversa. Ma purtroppo le conseguenze diventano pressoché mostruose quando si applicano alle vicende del diritto commerciale e societario. Non è affatto vero che il sistema inquisitorio – quello per il quale i pm milanesi hanno fatto piazza pulita di interi cda senza neppure celebrare un’udienza preliminare e in assoluta mancanza di contraddittorio di fronte a giudice terzo – ottenga effetti migliori a fronte degli scandali finanziari. Elliot Spitzer, l’Attorney General di South Manhattan competente per Wall Street, ha strappato ammissioni di colpevolezza esemplari e soprattutto risarcitorie a soci e obbligazionisti danneggiati da banche e revisori e società di auditing per centinaia e centinaia di milioni di dollari, e lo ha fatto praticamente quasi sempre attraverso accordi stragiudiziali con le parti. Da noi un reato della consistenza eterea come l’aggiotaggio è servito a fare da un giorno all’altro carne di porco, per sbarazzarsi di coloro che davano fastidio tra gli altri a quei soci di controllo della Fiat che l’hanno praticato mentendo al mercato per tutta l’estate sull’operazione Exor-Ifil. Su operazioni che non avevano creato danno a nessun socio o creditore o fornitore, e che andavano dunque sanzionate o con opa obbligatorie – che sono l’unico modo per sanare eventuali concerti – o con il semplice accordo a farsi da parte per manager eventualmente disinvolti – ma mai denunciati dai propri soci per danni determinati dalla loro condotta – senza per questo porre nel nulla acquisizioni di controllo svolte da società giuridiche e non da persone fisiche. Come scrive il professor Langer, quando è la presunta “verità” ad avere nei pm i suoi sacerdoti, un loro ruolo invasivo quando si tratta di delitti di sangue può diventare addirittura rivoluzionario, quando si tratta di mettere in mora negozi giuridici tra privati. Preferiremmo sbagliarci, ma è quel che è avvenuto negli ultimi mesi in Italia. Un paese che già il mercato non l’ha mai molto amato, figuriamoci poi se per praticarlo virtuosamente si invoca l’ombra della ghigliottina. Contro metà della cosiddetta “finanza rossa”, sol perché si vuol far intendere che è l’altra metà quella che non crea problemi, perché sta rintanata sui colli senesi, e non attenta a equilibri consolidati.