Il cristianesimo non è una scatola

Hai voglia a mettere in scatola l’amore. L’amore. Figuriamoci. Chi si sia innamorato anche solo mezza volta nella vita, come pure chi ami lo stesso uomo o la stessa donna da trent’anni, sa perfettamente, a rifletterci solo un istante, che la pretesa sarebbe irragionevole.
Detto laconicamente: già è difficile capire che cavolo sia, l’amore. Viverlo, poi. Sapere che farne. Come maneggiarlo. Persino nelle banalità: “Cara, che cosa guardiamo stasera in tivù?”, o “Chissà se le piaccio”, o “Tesoro, che ne pensi se quest’estate andiamo in Grecia?”, o “Ci starà o non ci starà?”, cose così.
Da tempo si sapeva che Benedetto XVI avrebbe dedicato la sua prima enciclica al tema dell’amore. Lo attendevamo al varco un po’ tutti: cattolici, laici, anticlericali, atei, agnostici. La sensazione era quella che, in un modo o nell’altro, lo si sarebbe colto in castagna. L’amore. Figuriamoci.
E, certamente, adesso che l’enciclica è stata pubblicata si può dire che nella Deus caritas est ci sono diverse cose discutibili. In alcuni passaggi il Papa dà, in effetti, l’impressione di farla un po’ facile. Ad esempio quando dice, come fosse la cosa più scontata del mondo, che l’uomo è fatto di corpo e anima. O quando cita Platone e il suo meraviglioso mito degli androgini narrato nel Simposio, e poi lo interpreta dicendo che da esso scaturisce l’idea che l’uomo possa essere completo solo nella “comunione con l’altro sesso”, laddove anche il più becero degli studenti liceali sa che Platone, semmai, privilegiava l’amore erotico tra uomo e uomo (e in quel mito lo dice chiaramente, accennando anche all’amore tra donna e donna). O, ancora, quando sceglie come bersaglio polemico un materialismo marxista che non viene più sostenuto nemmeno da Cossutta.
Tuttavia, l’aspetto veramente sorprendente dell’enciclica è quello che in essa manca. Non c’è la scatola della morale. Non c’è la scatola dell’integralismo. Non c’è, insomma, niente di ciò che molti si sarebbero aspettati da Benedetto XVI, o almeno da quell’immagine del “pastore tedesco” che tanti commentatori hanno dipinto in questi primi mesi del suo pontificato: il grigio burocrate della dottrina, il “grande inquisitore” che fu a capo del Sant’Uffizio, il tristo pontefice restauratore dopo la bonarietà allegra (almeno per i parametri che ci si immagina regnino nelle sacre stanze vaticane) del pontificato di Giovanni Paolo II.
La Deus caritas est, in buona sostanza, è un’enciclica sommamente religiosa. In essa Benedetto XVI pone al centro l’essenziale, sottolineando il fatto che si tratti dell’essenziale: ha senso parlare di amore perché Dio è amore. Il resto, tutto il resto, non è fondamentale. Nessun accenno alla precettistica sessuale. Pochi accenni, e straordinariamente morbidi e aperti, alla dottrina sociale. Dio è amore, ripete il pontefice, e ne sembra stupefatto come un bambino. C’è un’evidenza che si impone nel momento in cui si afferma che Dio è amore: l’amore non è inscatolabile. Nessuno, dice esplicitamente il papa, può amare se non ricevendo e vivendo un frammento di quel tutto indicibile che è l’amore di Dio. È la decostruzione di ogni morale che pretenda di costituirsi in ideologia. È la decostruzione di ogni scatola che pretenda di imporsi all’uomo e di violare qualche aspetto della sua pazzesca complessità. È lo smascheramento di ogni idolo finito che pretenda di farsi assoluto, e cioè di rubare il posto di Dio. Fosse anche l’idolo della morale cattolica. Fosse anche l’idolo della società giusta perché conforme all’etica cristiana. È, insomma, l’idea di un cristianesimo che non possa essere concepito se non come libertà di fronte a quell’immensa profferta che è il capolavoro dell’amore creativo e redentore di Dio, cioè la complessità umana.
Poi, dice il Papa, siamo imbarcati nella storia, e quindi c’è da esserne responsabili, e da costruire cercando il più possibile, per quanto è dato alla fallibilità umana, di vivere l’amore e di realizzare la giustizia. Ma se l’amore di Dio (se l’amore che è Dio) si manifesta in una cosa così pazzesca, così impensabile come una lotta, un combattimento che Dio intraprende perfino con se stesso e dentro se stesso (Dio, sembra dire il Papa, fa fatica ad amare – una fatica massacrante, e il massacro è la croce – combattuto tra la giustizia e il perdono, e alla fine vince contro se stesso e ama e crea e benedice e salva), non c’è forma umana che possa restituirne l’interezza e la complessità. È l’epitaffio di ogni possibile integralismo e la constatazione che il cristianesimo non può essere se non un cammino, e mai un sistema. Mai una scatola.