Dan Brown e lo scetticismo

A proposito del Codice Da Vinci e di tutto il suo indotto, è un po’ di tempo che mi chiedo se il problema sia ciò che Dan Brown ha fatto di quel che c’è di più sacro nel cristianesimo, o se sia quel che c’è di più sacro nel cristianesimo ad aver generato Dan Brown e tutto quel che ne consegue.
Una religione che si basa sul presupposto inaudito dell’incarnazione del divino (inaudito e, letteralmente, incredibile proprio sul piano religioso, cioè secondo la vertiginosa prospettiva dell’intuizione dell’infinito da parte di una mente finita) non è già, per sua essenza, esposta allo sprofondamento umanissimo e irrimediabile dell’interpretazione infinita, parodie beffe e paccottiglia comprese?
Dopotutto, la sacra scrittura è piena di passi nei quali i profeti prima e gli apostoli poi spiegano con sgomento un’idea pazzesca: il farsi uomo di Dio. È davvero tanto più blasfemo il ridicolo gioco ermeneutico del Codice Da Vinci rispetto all’idea che il creatore dell’universo abbia calcato le strade della Galilea? Abbia mangiato, dormito, sognato, si sia con ogni evidenza ammalato, abbia sudato, abbia dovuto avere a che fare con le deiezioni corporali, abbia sanguinato e provato dolore?
In fondo, l’ideuzza che ha guidato lo scrittore americano e che ha scatenato friccichi emotivi un po’ in ogni angolo del pianeta è la riedizione, in minore, dello scetticismo degli ateniesi che affollavano l’Aeropago mentre Paolo parlava: non può essere. Un uomo è un uomo. E se è un uomo non è Dio. Se è un uomo è possibile interpretarne i gesti e le parole all’infinito, come si può (e forse si deve) fare con tutto ciò che è umano. È possibile eliminarlo, fisicamente e simbolicamente. Il contingente è, per l’appunto, contingente. Non ha la forza di stare in piedi da sé. Altrimenti sarebbe assoluto, ma sono i cristiani stessi a dire che l’assoluto si è, se si passa l’espressione, disassolutizzato. Di conseguenza, è possibile prenderlo e inchiodarlo a una croce. È possibile criticare quel che dice. È possibile immaginarselo diversamente da come è. È possibile comprarlo e venderlo per trenta denari. È possibile scannarsi perché se ne recepiscono gli insegnamenti secondo sfumature diverse.
Non si potrebbe nemmeno immaginare un romanzo come Il Codice Da Vinci che ruotasse intorno a un Dio come la sostanza spinoziana, o l’universo bruniano, o il motore immobile aristotelico, o l’Uno plotiniano. Quelle sono mirabili carambole del pensiero che cercano di sottrarsi alla possibilità stessa dell’interpretazione. Assoluti che si contentano, per così dire, di porsi come assoluti. Se ne stanno là fuori (o là dentro, o là in fondo) inattingibili, certo, ma anche inattaccabili.
È con un Dio che – dicono – si fa carne che cominciano i problemi. Che comincia quella lunga storia di assassinio di Dio che parte sul Golgota (un po’ prima, in verità) e si chiude – per ora – con un film di Ron Howard.
Dicono che a Cannes, alla prima del film per la stampa, siano scoppiate risate imbarazzate quando Tom Hanks esclama, a proposito della protagonista interpretata da Audrey Tautou: “Dunque tu saresti l’ultima discendente di Cristo”. Superficialmente, a un cattolico tali risate potrebbero anche non dispiacere (e sicuramente non dispiacciono a me, ché testimoniano almeno che al mondo sopravvive un briciolo di gusto estetico). Ma a ben pensarci, quelle risate sono anche il suggello dell’incredibilità dell’umanità di Dio. E ciò, per un cattolico, dovrebbe essere preoccupante.