Il nostro partito quotidiano

Il partito democratico si costruisce giorno per giorno, non c’è dubbio. Il problema è che qui ogni giorno se ne costruisce uno nuovo, in un dibattito quotidiano che presto avrà stremato anche i più tenaci appassionati. Alla fine della settimana appena trascorsa sono arrivati però due contributi di indubbio interesse: l’intervista di Piero Fassino all’Unità e l’intervento di Francesco Rutelli all’Assemblea federale della Margherita. Ognuno dei due si limitava dunque a parlare ai “suoi”. Ma al tempo stesso parlava ai “suoi” perché l’altro intendesse.
Il segretario dei Ds sostiene che occorre mettersi al lavoro subito dopo il referendum e noi siamo del tutto d’accordo con lui. Il leader della Margherita risponde che il partito democratico non è una corsa contro il tempo e noi non siamo per niente d’accordo con lui. Il partito democratico è una corsa contro il tempo e se le energie, i consensi e le risorse che si sono mobilitati attorno a questa prospettiva non trovano uno sbocco, rischia seriamente di morire di noia, o peggio, di confusione. In entrambi i casi Fassino e Rutelli dovrebbero essere i primi a preoccuparsi.
Non è un mistero per nessuno che il partito democratico – o partito riformista, o partito dell’Ulivo, o come volete voi – è nato nell’estate del 2003. Romano Prodi, allora presidente della Commissione europea, pose come condizione per un suo rientro in Italia da candidato del centrosinistra la formazione di una lista unitaria dell’Ulivo. Massimo D’Alema rispose che occorreva una lista unitaria composta da Ds e Margherita, composta cioè dai due principali partiti della larga coalizione allora denominata Ulivo, come preludio alla formazione di un vero e proprio partito riformista. Piero Fassino attese parecchio prima di aderire pienamente al progetto. Quanto alla risposta di Rutelli, non c’è nemmeno bisogno di riandare tanto in là con la memoria per ricordarsene.
La posizione in cui si trovano oggi entrambi i leader di Ds e Margherita è la logica conseguenza delle scelte di allora. Non a caso sui giornali Fassino è descritto quasi in una sorta di affannoso inseguimento, mentre Rutelli appare decisamente ai margini. Una condizione che si rispecchia negli equilibri e nell’azione di governo, determinati da Prodi e D’Alema assai più che da Fassino e Rutelli. Se ne potrebbe concludere che ognuno raccoglie ciò che ha seminato, ma non sarebbe una buona conclusione. Anche perché in politica gli errori passati si pagano, ma si pagano molto di più gli errori futuri.
Come tante altre volte, non appena giunti al governo, gli attuali presidente del Consiglio e ministro degli Esteri tendono a guardare ogni cosa dalla loro nuova prospettiva. E tutto sembra essersi fermato, ancora una volta. La differenza rispetto al passato, però, è che in realtà non si è fermato proprio niente. Come ampiamente dimostrato dall’alluvione di interventi e prese di posizione da parte di esponenti del centrosinistra di ogni ordine e grado all’indomani delle ultime amministrative, il processo unitario ha ormai raggiunto la massa critica necessaria per andare avanti da sé.
Se prima Prodi e D’Alema, Fassino e Rutelli potevano decidere se frenarlo o spingerlo avanti, ora possono solo decidere se guidarlo o subirlo. La morte per noia o per confusione dell’intero progetto, che pure è un rischio concreto, coinciderebbe infatti con la loro definitiva sconfitta. Pertanto, dal loro punto di vista, una simile ipotesi non dovrebbe nemmeno essere considerata.
Prodi e D’Alema possono continuare a occuparsi del governo del paese. Fassino e Rutelli possono continuare a discutere l’uno dei pessimi risultati del partito dell’altro. Così facendo renderanno plasticamente evidente la necessità che qualcuno prenda in mano la situazione, organizzando gli stati generali del partito democratico a Torino, Roma, Napoli, Venezia. Non mancano sindaci e presidenti di regione pronti ad andare avanti. Se i massimi dirigenti nazionali di Ds e Margherita ritengono prioritario continuare ad annunciare grandi dibattiti sui valori e sui programmi, convinti che al termine di una lunga e approfondita discussione Fabio Mussi e Paola Binetti si abbracceranno come due fratelli che si siano alfine ritrovati dopo tanti anni di incomprensioni, passino pure il loro tempo a organizzare cicli di conferenze sulla vita e sulla morte. Non faranno certo male a nessuno. Ma certo non saranno simili dibattiti a fare di loro i futuri leader di un partito che inevitabilmente, a quel punto, saranno altri a costruire.