Il Regime change di Geena Davis

La campagna di Hillary Clinton per le presidenziali del 2008 ha mandato ieri sera il suo primo spot elettorale. Peccato che fosse camuffato da telefilm di prima serata”. Non era difficile trovare commenti del genere all’indomani della première di Commander in Chief, il telefilm politico che ha messo una donna (per l’esattezza Geena Davis) al comando della Casa Bianca. D’altronde era inevitabile che il pensiero andasse alla candidatura più annunciata della politica americana. In molti, infatti, si erano cimentati in originali paragoni ben prima che andasse in onda e c’era perfino chi ipotizzava che l’eventuale successo della serie avrebbe spianato la strada della senatrice Clinton. Noi, fortunatamente, sappiamo che i telefilm sono una cosa seria. E non si prestano a certi giochetti della politica. Certo, se fosse stato anche solo lontanamente possibile, la povera Hillary a questo punto avrebbe ben poche speranze: Commander in Chief è stato cancellato dai palinsesti Abc, dopo una sola, travagliata stagione (e siccome è in questi casi che le tv italiane danno prova di acume e lungimiranza, la serie è stata prontamente acquistata e mandata in onda in prima serata su Rai Uno).
Ma che la senatrice Clinton non potesse contare sull’onda lunga del primo presidente donna della tv americana ci era sembrato chiaro dopo appena qualche puntata. Non che a MacKenzie Allen manchino decisionismo e fermezza, è che tutto quel che le gira attorno assomiglia a un filmetto per famiglie, di quelli che di solito vanno in onda nel pomeriggio di Canale 5.
Il nostro problema è che siamo abituati troppo bene. Il nostro presidente – seppure uomo – quella MacKenzie Allen l’avrebbe liquidata con poche battute ben assestate. Il nostro presidente, Jed Bartlet, che di certo non si è mai fatto mancare un po’ di retorica, l’avrebbe sfoderata solo alla fine di un’estenuante e complicata crisi internazionale, dopo la quale gli avremmo perdonato tutto, perfino quelle inutili citazioni in latino.
Non è la mancanza di realismo a turbarci. In West Wing il presidente in carica ha un Nobel in economia, che in quanto a realismo se la batte con i dinosauri di Lost. Semmai a disturbare è la totale mancanza di complessità nella trama. Il problema – ce ne rendiamo conto – è che non tutti sono Aaron Sorkin, che in una sola puntata tiene le fila di almeno cinque storie diverse che vanno dalle questioni sentimentali alle crisi internazionali. Il problema è che quando il nostro presidente preferito decide di mandare le forze americane in un paese sperduto dell’Africa, allo scopo di fermare un genocidio, quel che ottiene è una serie infinita di sventurate conseguenze, l’ultima delle quali è un drammatico attentato alla base americana del Ghana. Quando, invece, Geena Davis decide di prendere posizione contro un pericoloso dittatore di un fantomatico paese sudamericano, si limita a rivolgersi in diretta tv alla popolazione locale. E a spiegare di essere costretta – per il loro bene, sia chiaro – a colpire progressivamente le uniche fonti di sostentamento del paese (che, per inciso, sono le piantagioni di droga), almeno finché non si decideranno a rovesciare la dittatura. Facile, no? Neanche il tempo di sentire le reazioni dell’opinione pubblica, che quelli si sono già ribellati e hanno iniziato sommosse in tutto il paese. Saranno pure le capacità persuasive di una donna, ma al momento non ci pare che i discorsi di Condoleezza Rice abbiano sortito gli stessi miracolosi effetti.