I baluardi delle gare etiche e pulite

Siamo ormai a fine luglio e quindi ci si può sbilanciare senza tema di smentita: la vera tendenza di questa estate 2006, dopo gli anni delle palline clik-clak, del supercafone e del sudoku, è ergersi a baluardi dello sport etico e pulito.
Si tratta di un comportamento che fa fare una porca figura a buon mercato, cavalcando l’onda del sentire dei più. Come tutte le tendenze conosce dei detrattori, ma poco importa: tra un fritto misto, una granita e un tuffo dove l’acqua è più blu sarà un gioco da ragazzi metterli a tacere con argomenti di facile presa e, soprattutto, di immediato reperimento e pronto uso. Si abbia solo l’accortezza di acquistare, di tanto in tanto, un quotidiano sportivo, sulle cui pagine di certo tali argomenti abbonderanno, oltretutto in un linguaggio accessibile anche ai meno acculturati.
Si presti tuttavia attenzione ai rischi cui questa tendenza di moda, come qualunque altra, va incontro.
Il primo rischio è credere che si possa portare l’abito del baluardo senza averne il fisico. Facilmente si finirà male. Un po’ come gli organizzatori del Tour de France: sarebbe stato, si diceva, il Tour del ciclismo finalmente pulito, una volta messi alla porta senza tanti complimenti fior di campioni che avevano il torto di essere stati coinvolti in un’inchiesta su pratiche illecite. Si badi bene: non indagati ufficialmente, né tanto meno condannati per alcunché. Nomi grossi, nomi di richiamo, ma giustamente la tendenza impone l’esagerazione, e quindi fuori tutti, senza alcun rimpianto, come quando si cambia acconciatura o si regalano alle dame di carità i vestiti ormai passati di moda. Ora, va benissimo menarla per tre settimane di fila – ben supportati dalla stampa internazionale – sul fatto che chiunque avesse vinto, sarebbe stata, dopo anni di sospetti, la vittoria di un simbolo del ciclismo sano. Però, signori miei, non si può sbracare solo due giorni dopo, e farsi beccare con un vincitore non solo coinvolto o indagato, ma addirittura sputtanato da fior di analisi come dopato, anzi dopatissimo. E, per la prima volta in più di un secolo, essere costretti a riscrivere a tavolino la classifica finale, dopo aver premiato in mondovisione un lestofante con lo sfondo dei Campi Elisi e dell’Arco di trionfo. Per la prossima volta, un consiglio: sobrietà, magari qualche velleità in meno, basso profilo. Credetemi, anche quelle sono un classico. Meno di tendenza, ma si portano sempre bene. Da più di un secolo, appunto.
Il secondo rischio è sbagliare gli accessori. Anche in questo caso, possono essere dolori. Un po’ come quelle società di calcio che dopo la tempesta delle retrocessioni e delle penalizzazioni inflitte a mezza serie A ora vanno in giro dichiarando ai quattro venti di essere il simbolo stesso dell’onestà e della probità sportiva, e persino avendo l’aria di crederci. Attenzione: è facilissimo cadere su un particolare. Un pacchiano Rolex d’oro, per dire. O un passaporto falso. O una fideiussione men che cristallina, e magari dichiaratamente fasulla. Non si fa. Piuttosto, meglio sdrammatizzare fin da subito. Meglio rinunciare anche in questo caso alle velleità da baluardi, e tenere quell’aria casual di chi passava di lì e ha raccolto quel che c’era da raccogliere, così, senza tirarsela troppo.
Il terzo rischio è il più micidiale: mostrare che la moda è, appunto, nient’altro che una moda, destinata come tutte le mode ad essere travolta e dimenticata in breve tempo. Un po’ come quel giudice della Federcalcio che, l’indomani della sentenza a tutti nota, ha avuto la curiosa idea di dichiarare che no, alla commissione federale da lui presieduta non risultava essere stato commesso alcun illecito; e alla successiva domanda circa i motivi che avessero indotto la corte a infliggere ugualmente condanne e penalizzazioni pesantissime, ha risposto testualmente: “Abbiamo cercato di interpretare un sentimento collettivo, abbiamo ascoltato la gente comune e provato a metterci sulla lunghezza d’onda”. Ora, è evidente a tutti che una tendenza non si fonda su altro che su se stessa, e quindi la risposta del giudice è assolutamente onesta e in qualche modo veritiera. Però, santo cielo, bisogna proprio spiegarvi tutto: una tendenza funziona finché non viene svelata per quello che è, ovvero una moda insensata. L’illusione deve rimanere accampata. Così l’incauto giudice ha svelato il trucco, e senza trucco non c’è più moda. Insomma, si fa, ma non si dice.
Il quarto e ultimo rischio è essere costretti dalla forza delle cose o dai propri fragili nervi a rinnegare l’atteggiamento da baluardi, e finire per fare la figura dei peracottari. Un po’ come tutti coloro, ed erano tanti, che alla vigilia dei Mondiali di calcio chiedevano a gran voce – chi al bar sotto casa, chi sulle prime pagine dei quotidiani nazionali – l’allontanamento dalla Nazionale di Lippi, Cannavaro e Buffon: il primo perché padre di suo figlio, il secondo perché amico di un suo amico, il terzo perché aveva speso i suoi – molti – soldi un po’ come gli pareva. Qualcuno, addirittura, s’era spinto ad un’interpretazione invero piuttosto estrema della tendenza, e aveva dichiarato che sarebbe stato meglio ritirare dai Mondiali proprio tutta la delegazione italiana, dai giocatori all’ultimo funzionario della Federazione. Salvo poi ritrovarsi – magari anche dall’alto di una certa età – a urlare come forsennati, cinti solo di un tricolore e a bagno in una qualche fontana, “Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!”.