Il silenzio dell’uomo

E’ la vita della città a scatenare il parlare continuo”. Questa preziosa osservazione di María Zambrano, silenziosa e discreta pensatrice spagnola, molto mi rinfranca, e mi dà il coraggio necessario per affrontare il mare di parole che toccherà di leggere, scrivere, commentare, ascoltare, o semplicemente ripetere nei prossimi mesi, dopo una lunga pausa estiva vissuta eroicamente dal sottoscritto senza tv e senza giornali. All’inizio – dico non all’inizio della vacanza, ma della storia in generale, quando l’uomo non era ancora compiutamente umano – doveva regnare un gran silenzio. Non è che l’uomo non sapesse parlare: è che non ce n’era motivo. C’era altro da fare, con la voce: gridare, ordinare, implorare, consacrare, compiere in generale azioni efficaci. Non c’era alcun motivo di chiacchierare, “di parlare senza tregua sopra omnia res” – scrive ancora la Zambrano. Originariamente, la funzione del linguaggio non doveva essere affatto quella di consentire a ciascuno di esprimere la propria opinione: non perché non era ancora conquistato come diritto fondamentale dell’uomo quello della libertà di espressione, ma perché non c’era nulla che fosse necessario esprimere. Prima di rivendicare il diritto di parlare, bisognava infatti avere qualcosa da dire: non semplicemente qualcosa che si vuol dire tanto per dire, ma proprio qualcosa che va detta. Parlare per parlare, è un lusso e una frivolezza che si può permettere solo un uomo di città. Nei villaggi e intorno ai templi non regnava certo il cicaleccio.
Forse è arduo comprendere come si potesse – in un tempo assai lontano – non proibire o proibirsi di parlare, non mordersi la linguaccia e starsene zitti, ma semplicemente e senza alcuno sforzo non parlare affatto. Che genere di uomini fossero, questi uomini privi di curiosità, restii alla chiacchiera, ignari del gossip, a digiuno di sondaggi e di comunicati stampa, è domanda alla quale è difficile rispondere. Non potendo mettere a fuoco quella taciturna situazione originaria, in cui non si rilasciavano dichiarazioni, non si rispondeva ai più svariati test da ombrellone, non si raccontavano barzellette e a pronunciarsi (in termini peraltro oscuri) erano solo re, oracoli e sibille, guardiamo piuttosto la situazione presente. Iniziano, ad esempio, le scuole (manca poco), e i telegiornali stanno per mandare le consuete interviste stagionali raccolte dinanzi ai licei romani: agli studenti scafati, alle mamme ansiose, ai seriosi dirigenti scolastici. Si raccolgono opinioni il cui valore è zero. Zero quanto al contenuto oggettivo dell’opinione in questione, zero dal punto di vista dell’incidenza politica o sociale, zero dal punto di vista dell’indagine sociologica, zero anche dal mero punto di vista statistico. Non significano assolutamente nulla, non sono rappresentativi di alcunché, non saranno tramandate ai posteri. Però vanno in onda: perché?
Perché viviamo in città, è la risposta della Zambrano. In città e in democrazia. Non ci sono più parole ieratiche, formule religiose, incantesimi e scongiuri, editti regali e preghiere sacerdotali: ognuno può dire la sua. Il sacro si è ritirato, il mondo si è smagato, e nessuno ha più l’ultima parola. In compenso tutti ne hanno di penultime (spesso: di quart’ordine). È l’età ermeneutica della ragione, è l’ininterrotta conversazione che l’umanità tiene con se stessa, da quando le fiere sono scomparse persino dalle favole e gli dèi si sono allontanati. L’auratico Heidegger rilascio nel ’76, poco prima di morire, una celebre intervista a Der Spiegel, “Ormai solo un dio ci può salvare”, dove di certo sottintendeva: dal chiacchiericcio quotidiano. Ma non è chiaro se potrà mai rivelarsi un nuovo dio in mezzo a tanta confusione, o se sarà lui a mettere finalmente a tacere gli uomini.
La celebre conclusione del Tractatus di Wittgenstein, uno dei più austeri capolavori del Novecento filosofico, che in poche pagine pretende di delimitare tutto ciò che è sensatamente dicibile, va dunque completata. Essa recita: “Di ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. L’imperativo che regola la socialità contemporanea suona invece: “Di ciò, di cui si può parlare, non si deve tacere”, e giù fiumi di parole.
Se però è divenuta addirittura una necessità non quella di star zitti, ma quella di proferir verbo, vuol dire che la conquista della parola ha mutato di segno e funzione. Non si tratta più del solo diritto di parlare, ma di ciò: che vengo fatto parlare. È il linguaggio che ci parla, si dice, per sottolineare il fatto che non siamo noi a inventare il linguaggio. Ma forse la cosa è andata un po’ più in là, visto che non inventiamo nemmeno gli argomenti all’ordine del giorno in spiaggia, al lavoro o in tv. Le parole hanno sempre più una funzione semplicemente fàtica – più o meno la stessa che ha l’esclamazione “pronto!” al telefono: non significa nulla, ma mette in comunicazione. Non richiede alcun pensiero, ma avvia la conversazione. Gran parte delle parole che noi pronunciamo sembrano ridursi a questa sola (peraltro indispensabile) funzione: come un tempo le mezze stagioni in uno scompartimento del treno.
Non c’è peraltro nulla di male. Che non si possa più tacere non significa che bisogna avere nostalgia di silenzi timorati e, spesso, intimoriti. Solo che bisogna saperlo. Bisogna sapere che la celebre battuta di Nanni Moretti va corretta (ne sarà contento). Non: “chi parla male, pensa male” ma più radicalmente: “Chi parla, pensa male”. O almeno: quando parla, non ha nulla a cui pensare e non dice nulla che sia veramente pensato. Dice più o meno: “pronto!” e non ha molto altro da dire.
Ecco allora la sfida: mettersi nuovamente a cercare, in mezzo alle molte parole già parlate, le cose che vale davvero la pena di dire, per parlare di nuovo con un po’ di efficacia. Ma confesso francamente che non sono affatto sicuro, sin qui, di esserci riuscito.