Il riso di Mohammed Atta

Diceva Giambattista Vico: “Tutte [le nazioni] hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consegrate solennità che religioni, matrimoni e sepolture”. È difficile dire se gli uomini adorino dei, celebrino nozze e onorino sepolture perché sono uomini, o sono uomini perché adorano, perché celebrano, perché onorano. Come che sia, “da queste tre cose incominciò appo tutte [le nazioni] l’umanità”. E per Vico vale la “degnità” che “idee uniformi nate appo interi popoli tra essoloro non conosciuti debbono avere un motivo comune di vero”. Possiamo leggere la cosa così: se l’uniformità di costumi deve contenere un motivo di vero, se siamo uomini, se nasciamo all’umanità per tutte queste cose, perché eleviamo altari, uniamo in matrimonio e diamo sepoltura, allora, nel modo in cui ci avviciniamo alla vita e alla morte, dobbiamo poter riconoscere, pur in mezzo alla varietà dei costumi, dei riti, delle cerimonie, una comune traccia di umanità.
Sul sito del settimanale inglese Sunday Times è possibile vedere per la prima volta il video in cui Mohammed Atta e Ziad Jarrah leggono quello che sembra essere il loro testamento spirituale. Il primo, egiziano, era il capo del gruppo di terroristi che colpirono le Twin Towers, il secondo, libanese, pilotò il volo United Airlines 93, che mancò il bersaglio e si schiantò sul suolo della Pennsylvania per via della inaspettata reazione dei passeggeri. In mancanza del sonoro (il video è senza audio), quel che più ha colpito del filmato è l’atteggiamento lieve e scherzoso dei due uomini, che chiacchierano e sorridono rilassati, prima di farsi seri e leggere il documento che reca scritto, in arabo, “le volontà”. In controcampo, tra il pubblico, ascolta Bin Laden.
Ora, pensando a cosa avessero in serbo in quel lontano campo di addestramento a sud di Kandahar, in Afghanistan, quale strage di uomini stessero preparando, quale spaventoso eccidio, si rimane interdetti di fronte alla frivola leggerezza con la quale questi uomini si davano a pianificare la morte di altri uomini, e il loro stesso martirio. Non a caso, nell’edizione online, il Sunday Times titola “The laughing 9/11”: il ridente, l’allegro, il gioioso undici settembre. Il fatto che il video sia datato 18 gennaio 2000, che cioè manchi più di un anno e mezzo dall’attentato, non dovrebbe farceli sembrare meno disumani: dov’è la traccia di umanità in quella specie di ridanciano fuori onda che precede la dichiarazione solenne – si può presumere – del sacrificio in nome di Allah?
Nel domandarmelo, mi sono tornate alla mente, oltre alle celebri parole di Vico che ho riportate sopra, quelle che ho letto in uno strano assemblaggio di materiali che porta il titolo de Il suicidio di Angela B. – uno dei romanzi italiani più significativi degli ultimi anni, scritto da Umberto Casadei. Lorenzo Trovato, l’uomo che ha composto il corpo di Angela, scrive una lettera a un importante direttore di giornale, per difendersi – e per accusare. Fermatosi sull’autostrada con il suo Ducato per raccogliere le spoglie della ragazza, suicidatasi da un cavalcavia e già orrendamente sfigurata dal passaggio di molti autoveicoli, l’uomo ha causato in quella grigia mattina di nebbia un tamponamento a catena, ed è finito sotto accusa per l’avventata irresponsabilità del suo gesto. Al direttore che di un certo concetto di responsabilità ha fatto un cardine per invocare nei suoi veementi editoriali il ritorno ai valori fondamentali della persona umana, al direttore abituato a rampognare le nostre decadenti società occidentali in questi termini: “se veramente credessimo alla vita come valore, la distanza dalla sua negazione sarebbe invalicabile, e la sua negazione, nella fattispecie, l’assassinio, non potrebbe mai assolutamente raggiungerci”; al direttore che ha commentato il gesto suicida di Angela con parole come relativismo, lassismo, tolleranza ipocrita (parole che invero altri, realissimi direttori di giornale usano spesso, ai nostri giorni), scrive Lorenzo Trovato, l’autotrasportatore: “Lei, signor direttore, da provetto manicheo, mi par di capire, rifiuta categoricamente di riconoscersi nell’assassino”.
Riconoscersi nell’assassino? Riconoscersi in Mohammed Atta e Ziad Jarrah che sorridono pensando di uccidere? Riconoscersi, invece di segnare distanze? Ma dove si arriverebbe, di questo passo? Io credo: fin là dove queste parole possono autorizzarmi, anche a costo di essere accusato da certi direttori di giornale di complicità perlomeno sentimentale con l’assassino.
Un’idea di umanità ritagliata su un numero molto limitato di anni, e che prima di essere confezionata dai media per circolare senza dare scandalo viene mondata di tutto quello che c’è di sgradevole nell’essere uomini (perché di sgradevole c’è molto), non può ammettere che Mohammed Atta e Ziad Jarrah, ridendo, siano stati uomini. Deve mettere una distanza invalicabile tra noi uomini, e quelli per i quali la vita vale così poco da mescolare piani di morte e risa e motti di spirito. Qualunque confusione sarebbe cedimento. Il valore della vita umana sarebbe ridotto a zero, come è zero per i killer di Pulp Fiction, che discettano sorridendo del più e del meno un attimo prima di compiere un massacro.
A me invece riesce più facile pensare che questi uomini furono uomini proprio perché, Dio abbia pietà di loro, furono almeno capaci di distrarsi dal loro nero pensiero di morte. Furono almeno, per qualche minuto, rapiti non dalle loro grandi e tragiche idee ma dalle minime abitudini del vivere. Poiché io sono quest’uomo distratto, convinto che la vita non prende valore solo dal modo in cui affrontiamo la morte, dalla coscienza di essere mortali, ma dalla gioia di essere viventi, e che se dunque è vero che siamo uomini – come diceva Vico – perché diamo sepoltura, siamo uomini migliori, non peggiori, quando non siamo medusizzati dalla morte e decisi a morire.