L’Idra funesta di via Solferino

Nell’editoriale apparso mercoledì 27 settembre sul Corriere della sera a proposito del caso Telecom (“L’Idra italiana – un dubbio sulla distruzione dei dossier”), la penna di Nicola Tranfaglia era facilmente riconoscibile, per lo stile e per il contenuto. Tanto che non si capisce per quale ragione l’autore abbia pensato di celarsi dietro lo pseudonimo di Ernesto Galli della Loggia.
Naturalmente non abbiamo prove, fuori della scrupolosa analisi filologica, per affermare che il vero autore sia proprio Nicola Tranfaglia. E non – poniamo – Giulietto Chiesa o Paolo Flores d’Arcais. Fatto sta che l’apocrifo, impunemente, ha potuto cominciare il suo articolo sul caso Telecom con queste parole: “E’ ricomparsa l’Idra italiana. Negli atti della magistratura viene chiamata «centrale criminale di spionaggio», ma il nome appare davvero di una portata assolutamente inferiore alla realtà che dovrebbe designare”.
Come si vede, bastano le prime righe per accorgersi dell’inganno: si è mai sentito il professor Galli criticare i magistrati non già per le loro arbitrarie conclusioni, frutto di teoremi carichi di pregiudizi ideologici, bensì per avere sminuito, circoscritto e limitato la portata dei fatti?
Ma va anche detto che il seguito dell’editoriale sembra contraddire, almeno in parte, la prima impressione. “E’ molto, molto difficile – prosegue l’apocrifo – immaginare che le informazioni raccolte potessero, per la loro quantità e qualità, essere gestibili da un qualsiasi vertice di tipo aziendale: a meno di non pensare all’ipotesi, allo stato degli atti fantascientifica, che un tale vertice avesse in animo di trasformarsi in una sorta di vera e propria Spectre politica. Dunque, fintantoché una simile ipotesi resterà confinata nel campo dell’irrealtà è giocoforza pensare ad altro. Ma a cosa? Non lo sappiamo”.
I maligni potrebbero qui vedere semplicemente l’ansia, come si dice, di buttare la palla in tribuna. Magari per evitare al direttore del giornale eccessivi imbarazzi dinanzi a quel Marco Tronchetti Provera che è azionista non di secondo piano – oltre che di Telecom – della Rizzoli-Corriere della sera. Ma questa è una ricostruzione in cui proprio non ci riesce di riconoscere il professor Galli. Tanto meno, poi, lo si può riconoscere nella sconcertante conclusione. “È una prospettiva così angosciosa – scrive l’apocrifo – da sentirci tentati da qualcosa che pure ci ripugna profondamente: consentire a che venga usato in sede giudiziaria tutto ciò che di illegale l’Idra ha prodotto e ha lasciato come una bava velenosa dietro di sé, se mai fosse questo il prezzo necessario, necessario ma di effetto sicuro, per assestarle un colpo mortale”.
Prospettive angosciose, bave velenose, colpi mortali. Come non pensare subito a Nicola Tranfaglia? Ma non è solo l’analisi filologica a suscitare il sospetto. Il tratto distintivo della scuola di Tranfaglia e tanti altri, infatti, sta nell’inversione di quello che potremmo chiamare l’onere del nesso causale. Il loro è un ragionamento che non procede, come logica vorrebbe, dal già noto verso l’ignoto; ma che, viceversa, dall’ignoto pretende di dedurre il già noto.
“L’Idra italiana che a scadenza fissa si presenta sulla nostra scena – dice ancora l’apocrifo – è precisamente ciò che è oscuro ed è destinato a restare tale; ciò che non sappiamo”. In pratica, la suddetta Idra, sarebbe la soluzione di tutti i misteri d’Italia, la pietra filosofale della cronaca giudiziaria come della ricerca storica. La spiegazione perfetta. E’ facile: se non lo sappiamo, vuol dire che è l’Idra. Non a caso, buona parte della letteratura giornalistico-giudiziaria – tante volte messa alla berlina dal vero Galli della Loggia – si inscrive pienamente in questa logica: non ci sono prove dell’innocenza di tizio, cioè non sappiamo se è colpevole o no, quindi non solo è colpevole del reato in questione, ma certo anche dell’insabbiamento delle prove.
E’ lo schema interpretativo che il professor Tranfaglia ha il merito di avere regalato alla ricerca storica. A lui dobbiamo infatti l’invenzione del periodo ipotetico del sesto tipo. Un’argomentazione che suona più o meno così: 1) I documenti in nostro possesso sono chiaramente incompleti. 2) Sappiamo però che tali collusioni, complotti e intrallazzi esistevano. 3) Dunque, se trovassimo i documenti, certo scopriremmo che le cose stavano effettivamente così.
Per fare un solo esempio, scrive Tranfaglia nel suo “La transizione italiana. Storia di un decennio”, a proposito della Bicamerale, che a sinistra «prevalse la linea della mediazione “al ribasso”». E aggiunge: «Che questa strategia abbia comportato uno scambio oppure no ha, almeno in questa sede, un’importanza relativa; anche perché se scambio ci fu bisogna pensare che fu di assai basso profilo, visto che mai se ne è parlato». Un classico dell’argomentazione tranfagliana sopra illustrata: 1) Non sappiamo se in Bicamerale vi fu uno “scambio”. 2) Se scambio vi fu, fu senz’altro una porcheria, perché (punto 3) non ne sappiamo nulla. Quello del Tranfaglia è insomma l’unico caso di studioso al mondo che fondi le proprie tesi sull’assenza di riscontri (le sue posizioni sulla giustizia e sul pentitismo, a conferma di quanto dicevamo, sono in fondo solo la logica applicazione di tale schema).
Siamo pertanto fermamente convinti che il vero professor Galli, dopo aver passato tanti anni ad attaccare la sinistra italiana proprio perché colpevole di allevare nel suo seno simili teorie (e simili teorici), non tarderà a procedere per vie legali contro il quotidiano di via Solferino.
C’è però un’altra ipotesi che, nonostante tutte le evidenze contrarie, occorre considerare. Ed è che l’articolo lo abbia davvero scritto, di suo pugno e di sua iniziativa, Ernesto Galli della Loggia in persona. Seguiamo dunque, solo per un attimo, lo stesso schema dei complottisti, partendo da una premessa manifestamente assurda e tentando di ricavarne le possibili conseguenze logiche. Ebbene, in questo caso, si tratterebbe di conseguenze di non poco conto. Non tanto per Galli, quanto per il Corriere. E specialmente per il suo direttore.
Paolo Mieli è divenuto direttore del Corriere della sera, una prima volta, nel pieno di quella crisi del ‘92 che fu lastricata di notizie teoricamente coperte da segreto istruttorio e puntualmente pubblicate in prima pagina, anche e soprattutto dal Corriere. E non si può dire che il direttore sia stato più riguardoso nei confronti del primo governo di Silvio Berlusconi, al quale recapitò – tramite il suo giornale – il primo avviso di garanzia. Di qui l’accusa che da tante parti gli è venuta, di farsi strumento delle congiure ordite dai grandi potentati economici, suoi editori, in collegamento con le procure. Non ricordiamo se allora qualcuno la chiamò Idra, ma se così fosse non ci stupiremmo.
Poi, dopo un lungo esilio, sia pure alquanto dorato, Mieli è stato frettolosamente richiamato in servizio, nemmeno due anni fa. Giusto all’alba di una nuova stagione di scandali giudiziari e furiosi scontri di potere, durante la folle estate del 2005. E con lui al comando, il Corriere è tornato a guidare la campagna di stampa a base di intercettazioni, verbali e veline – dicono i suoi detrattori, tra i quali ci iscriviamo – contro i nemici, economici e politici, dei poteri di cui sopra.
Nel frattempo, le penne migliori del Corriere mielista – a cominciare da Galli – non hanno perso occasione di scagliarsi ora contro il complottismo, ora contro il giustizialismo della sinistra. In questo gioco sopraffino Paolo Mieli è dunque riuscito a recitare tutte le parti in commedia: raccogliendo gli applausi della sinistra radicale quando suonava la carica contro i politici corrotti, durante Mani Pulite prima e contro Silvio Berlusconi poi, quindi godendosi le ovazioni della destra quando guidava la sua personale “guerra culturale” contro la sinistra di matrice ex-comunista, colpevole – tra molte altre cose – di giustizialismo e complottismo.
Al tempo stesso, però, non c’è stato in questi anni editoriale di Flores su Micromega, invettiva di Deaglio su Diario, titolo dell’Unità di Furio Colombo – maestri di giustizialismo e complottismo, se mai ve ne furono – purché rivolti contro i vertici della sinistra, che non abbia avuto sul Corriere ampia e dettagliata copertura. Le accuse di questo variegato milieu ai maggiori partiti del centrosinistra, non per nulla, sono sempre state incentrate sul concetto di “inciucio”: in breve, un complotto organizzato da una cricca di corrotti di destra e di sinistra per mettere la mordacchia ai nostri bravi pm. E il quotidiano di via Solferino le ha sempre volentieri rilanciate, per pagine e pagine, al solo scopo di inchiodare la sinistra su tali posizioni. Per poi poterle fare meglio la morale, attraverso i suoi sempre vigili editorialisti, maestri di liberalismo.
L’arte di attaccare l’avversario da un punto sempre diverso, senza mai smettere di girargli attorno e colpirlo in controtempo, ecco il cuore del mielismo. Ora giocando Prodi contro i Ds, ora aizzando i Ds contro Prodi; ora sostenendo Casini contro Berlusconi, ora facendo lo stesso con Fini; ora aprendo la prima pagina perfino all’ultimo e più improbabile esponente della Lega o della sinistra radicale, ora rigettandone le sparate in faccia a Prodi, Berlusconi o D’Alema.
Sorprende dunque non poco, sul caso Telecom, vedere un simile funambolo fermo sulle gambe, chiuso nell’angolo, con le braccia pesanti. Quasi verrebbe da pensare che l’inconsapevole autodafé firmato Ernesto Galli della Loggia e pubblicato mercoledì sul Corriere, in verità, sia l’autodafé del suo direttore. Genio insuperabile in quel che si dice “giornalismo di relazione”, naturale sottoprodotto del “capitalismo di relazione” che da decenni soffoca l’Italia. Osservatore disincantato e politico realista, rimasto di colpo drammaticamente privo di sponde.
Con la trasformazione di Ernesto Galli della Loggia in Nicola Tranfaglia, insomma, sembrerebbe compiersi la naturale parabola di un’intera stagione del Corriere della sera e dell’Italia. Insieme alla parabola di quel direttore il quale, ben consapevole di sé e del proprio posto nel mondo, si vanta pubblicamente di dare del tu a tutti i suoi editori. E che la mattina, davanti allo specchio, probabilmente dà del lei a se stesso.