Da Chianciano a Orvieto

A conferma delle parole di quel filosofo secondo il quale “i limiti del mio linguaggio disegnano i limiti del mio mondo”, sulla stampa il significato del seminario di Orvieto è stato largamente frainteso. E lo stesso è accaduto al seminario dei cattolici democratici svoltosi a Chianciano la settimana precedente, che dell’iniziativa di Orvieto costituiva in qualche modo la logica premessa.
Entrambe le riunioni avevano per oggetto la costruzione del Partito democratico. Ma per cogliere quello che a nostro avviso è il primo significato delle due manifestazioni, in breve, basterebbe domandarsi quale forma avrebbero preso se si fossero tenute appena una decina di anni fa.
Per quanto riguarda l’iniziativa di Chianciano è presto detto: nessuna. Semplicemente, essa non si sarebbe svolta. Non è un caso che la storica sede di tutti i grandi raduni della sinistra dc sia rimasta tanto a lungo deserta, per ragioni che rimontano al tracollo della Prima Repubblica. Il seminario di Orvieto, invece, non avrebbe incontrato ostacoli insormontabili, anche negli anni Novanta, a radunare centinaia di liberi cittadini, militanti di partito, intellettuali e commentatori di grandi giornali. Ma avrebbe avuto un significato profondamente diverso.
Potremmo dire che Orvieto, insieme a Chianciano, sia stato il primo segnale di risveglio dall’ubriacatura ideologica degli anni Novanta. Anche e forse soprattutto nelle parole, spesso desuete, con cui i convenuti hanno ricominciato a raccontarsi il mondo. I due eventi hanno segnato così il primo sensibile scarto dallo spirito del tempo che si è affermato agli inizi del passato decennio.
Di qui il malinteso di cui le iniziative di Chianciano e Orvieto sono state entrambe vittime, che ha portato molti a vedere nel primo un’iniziativa reducistica e nel secondo un fragile e contraddittorio rassemblement nuovista. Ma se questo era Orvieto, si è chiesto qualcuno, perché mancava proprio Michele Salvati, che di un Partito democratico così concepito è il primo ispiratore? E di converso: se quello era Chianciano, e cioè l’adunata di tutte le vecchie nostalgie democristiane, cosa c’entrava il Partito democratico, che pure era l’oggetto della loro riunione?
La malinconica rimpatriata di vecchi reduci senza futuro e la chiassosa assemblea di intellettuali nuovisti senza passato appartengono entrambe, a pieno titolo, alla forma peculiare che la politica e il dibattito pubblico hanno assunto negli anni Novanta. Entrambe fanno parte dell’universo politico e mentale in cui siamo precipitati con il crollo della Prima Repubblica. Non stupisce pertanto che molti osservatori, ascoltando le parole di Chianciano e di Orvieto, abbia istintivamente ricondotto l’ignoto alle categorie del già noto. Trovando subito conforto nell’autorevole parere delle solite mosche cocchiere.
A noi pare invece che il valore dei due seminari stia proprio nel fatto che essi, per tornare al filosofo da cui eravamo partiti, indicano alla mosca la via per uscire dalla bottiglia. Riannodando – e intrecciando fra loro – le fila di antiche e diverse tradizioni politiche in un discorso nuovo e coerente, che finalmente torna a poggiare su una visione autonoma della storia d’Italia.
Questo è l’aspetto che sembra sfuggire a coloro che rimproverano a Orvieto un’impostazione nuovista, dalle fragili basi politiche e culturali. Come si può pensare – sostengono i critici – che l’Italia debba essere l’unico paese d’Europa a non avere un grande partito socialdemocratico, come c’è in Spagna, in Francia, in Germania?
Si potrebbe rispondere semplicemente osservando che in Italia – a differenza che in Spagna, Francia e Germania – un grande partito socialdemocratico non c’è mai stato. Ma bisognerebbe anche aggiungere che solo in Italia, non a caso, è esistito un partito con le caratteristiche della Dc: non un semplice partito di centrodestra, come di fatto sono stati i partiti democristiani che in altri paesi europei si sono confrontati per cinquant’anni con i grandi partiti socialdemocratici. E che solo in Italia c’è stato un partito comunista come il Pci, che per anni ha svolto anche – e molto imperfettamente – la funzione assolta dalla socialdemocrazia in quei paesi. E solo in Italia, infine, c’è stato un partito socialista debole come il Psi, capace di passare in breve tempo dalla subalternità al Pci all’egemonia della Dc, per finire con una parte della sua diaspora stabilmente alleata del centrodestra.
Non è possibile, insomma, isolare il tema dell’assenza di un grande partito socialdemocratico dal resto della storia d’Italia, perché altrimenti non si capisce niente. E si fa solo vuota retorica, non politica.
Lo stesso si può dire dell’invocazione alla perduta laicità della sinistra e alla disperata ricerca di uno Zapatero italiano. Come se fosse possibile equiparare la storia della Dc, partito laico e antifascista, a quella dei popolari spagnoli. Non è un caso se nella Prima Repubblica l’espressione “partiti laici” comprendeva soltanto formazioni minori ed elitarie, tra le quali mai si iscrisse il Pci.
Solo ripartendo da una visione autonoma e coerente della storia d’Italia è dunque possibile costruire realisticamente qualcosa di nuovo. Questo è il valore dei seminari di Chianciano e di Orvieto, da cui tale riflessione finalmente comincia a svilupparsi. Ed è anche l’unica strada possibile, a nostro parere, per uscire dal gattopardismo di questi lunghissimi anni Novanta. Una riflessione che cominci ad affrontare, ben più distesamente di quanto si è fatto finora, il tema principale e troppo a lungo rimosso, frainteso o camuffato nel dibattito pubblico: l’Italia dal ’92 a oggi, cosa è successo e perché, in quella che potremmo chiamare l’era Eltsin della nostra democrazia.