A volte ritornano

Walter Veltroni e Sergio Cofferati sono tornati in questi giorni alla loro vera passione, che non è l’Africa né il decoro urbano, ma la politica nazionale. Veltroni lo ha fatto apertamente, con l’intervista concessa a Repubblica un paio di domeniche fa. Cofferati tenendosi un passo indietro, occupato com’è a fare ordine a Bologna (intesa come città e come federazione dei Ds) e in Emilia (come sopra). Su entrambi i fronti, nel partito, il sindaco è entrato in conflitto con Piero Fassino, e non sembra intenzionato a cedere. Nel Lazio, invece, Veltroni non ha avuto difficoltà a ottenere l’assenso di Fassino e D’Alema per il suo candidato alla segreteria, il capodelegazione ds a Strasburgo Nicola Zingaretti, ma qualcosa è andato storto anche lì. E il candidato locale, Piero Latino – incredibile ma vero – al momento sembrerebbe in condizione di vincere.
Il congresso nazionale dei Democratici di sinistra, previsto per la prossima primavera, di fatto è già cominciato. Veltroni e Cofferati sono tornati giusto in tempo per giocare la rivincita del congresso di Pesaro. Ma a parti invertite: allora infatti era Cofferati a guidare l’assalto, sia pure dietro Giovanni Berlinguer (candidato dal correntone contro Fassino) e con il prudente appoggio esterno del sindaco di Roma. Ora invece in prima linea c’è proprio lui, Walter Veltroni.
Nella sua intervista a Repubblica del 5 novembre, attaccando il Partito democratico come “somma Ds-Margherita”, Veltroni ha dichiarato: “Io resto al mio schema del ’96. Per me allora era il partito dell’Ulivo, che poteva raggruppare il Pds, il Ppi, Rinnovamento italiano, i Verdi, lo Sdi”. Il sindaco di Roma dice la verità: il suo è esattamente lo schema del ’96. E’ il vecchio che è avanzato, l’origine di quella contrapposizione tra ulivisti e partitisti che solo nel 2003, dopo anni di guerre intestine, sembrava essere stata finalmente superata. Ed era stata superata proprio con il Partito democratico (allora lo si preferiva chiamare Partito riformista e contava anche lo Sdi, ma era la stessa cosa), rilanciato da Prodi e D’Alema in due famose interviste al Corriere della sera, nell’estate di ben tre anni fa. Questa è stata la base su cui si è costruito il ritorno di Prodi e l’alleanza dell’Unione, su cui si è riusciti a porre fine alla guerra civile che dilaniava il centrosinistra e sembrava destinata a consacrare il centrodestra berlusconiano al governo del paese per i secoli dei secoli. E’ stato da allora, non a caso, che l’Unione ha ricominciato a vincere, elezione dopo elezione, fino a riconquistare il governo del paese.
E’ stato un processo faticoso e complesso, nel corso del quale si è dovuto combattere metro per metro, contro avversari interni ed esterni. E senza i quattro milioni di elettori delle primarie difficilmente si sarebbe riusciti ad andare avanti (ricordate Rutelli, che il giorno prima dichiara la morte della lista unitaria, perché sarebbe il primo passo verso un inaccettabile partito unico, e il giorno dopo dice che bisogna fare la lista, ma “a condizione” che sia il primo passo verso il partito unico?).
Il Partito democratico delineato nel convegno di Orvieto rappresenta il compimento di questo lungo e faticoso processo. Un partito riformista, nato dalla fusione tra Ds e Margherita, sulla base di una linea politica chiara e largamente condivisa. Perché da troppi anni è evidente come gli scontri e le polemiche tra i due partiti siano la conseguenza – non la causa – della loro divisione. Perché da troppi anni è evidente come la divisione tra riformisti e radicali, tra ulivisti e partitisti, tra cattolici e laici tagli trasversalmente entrambi i partiti. Perché non esistono due linee politiche riformiste, l’una diessina e l’altra margheritina. Semmai esistono molteplici linee politiche più o meno divergenti dentro i Ds e dentro la Margherita: l’alternativa non è tra la conservazione delle rispettive identità e l’unificazione, ma tra l’unificazione e lo spappolamento. La polverizzazione. E a seguire, inevitabilmente, l’irrilevanza.
La storia del centrosinistra dal 2003 a oggi che abbiamo sopra ricordato dovrebbe costituire di per sé una prova sufficiente, circa l’importanza di una simile operazione non solo per i Ds e la Margherita, ma per l’intera coalizione e per tutto il paese. Eppure, a un passo dal traguardo, proprio ora qualcuno vorrebbe mandare tutto all’aria. Tornare allo “schema del ‘96”, appunto.
Walter Veltroni è il nome della crisi che da oltre un decennio attraversa la sinistra italiana. Il “partito dell’Ulivo” da lui immaginato andrebbe dai Verdi all’Udeur, dai socialisti ai dipietristi, da Marco Pannella a Gad Lerner. Un’idea cui Veltroni è rimasto fedele negli anni – gliene va dato atto – sin dall’epoca dei referendum guidati da Mario Segni. Ma anche un bambino capirebbe che un partito del genere potrebbe esistere a una sola condizione: quella di non riunirsi mai, se non in grandiose assemblee preelettorali in cui votare il capo e ritirare qualche volantino da distribuire agli amici. Perché è del tutto evidente che un simile agglomerato potrebbe vivere solo sul principio di una delega totale ai suoi vertici. Perché l’unica forma di governo possibile di un partito siffatto sarebbe la monarchia elettiva, una Forza Italia senza Berlusconi, un gigantesco comitato elettorale del leader. A meno che non si voglia credere all’idea di una meravigliosa tavola rotonda attorno alla quale, come per magia, Pecoraro Scanio e Pannella, Di Pietro e Boselli, Gad Lerner e Marco Rizzo si riconoscano improvvisamente gli uni negli altri in nome di non si sa bene quali ideali, come tanti cavalieri di Re Artù. E ammesso e non concesso che un simile esito sarebbe desiderabile.
La posizione assunta da Veltroni sulle riforme istituzionali – nella stessa intervista a Repubblica che abbiamo citato – non è che la logica conseguenza di una tale concezione: la vecchia idea di Mario Segni, una legge elettorale sul modello dei sindaci per eleggere finalmente “il sindaco d’Italia”, rafforzando le prerogative del premier e limitando quelle del parlamento (casomai ci fosse ancora qualcuno intenzionato a discutere le scelte del capo, tra i poveri resti di un Ulivo ridotto a quel Circo Barnum che amano immaginare simili ulivisti).
Eccolo qui, lo schema Veltroni. Quello che a Roma va da Nunzio D’Erme a Olimpia Tarzia, dal capo dei no global che scaricava letame sotto casa Berlusconi alla biondissima leader di Scienza e vita che tuonava contro la fecondazione assistita durante la campagna referendaria – a proposito, dov’era il padre della “sinistra dei valori” durante la campagna referendaria? E come mai, nella sua ultima apparizione a Matrix, volendo lodare la capacità di Gianfranco Fini di compiere scelte coraggiose e fuori dall’ortodossia della vecchia destra missina, Veltroni è andato a ripescare addirittura il voto agli immigrati (di cui ormai si era dimenticato pure Fini), guardandosi bene dal citare invece la sua coraggiosa – e ben più recente – scelta referendaria?
Forse è davvero venuto il tempo delle “scelte alte e coraggiose”, come scriveva Veltroni in un bigliettino passato sottobanco a Pier Ferdinando Casini (e finito provvidenzialmente nelle mani di un giornalista, e di qui sulla prima pagina del Corriere della sera). Quel bigliettino in cui alla vigilia del voto si facevano i conti sui sondaggi, in cui ci si augurava il pareggio e il “Senato imballato”, in cui si sperava – per le personali fortune di entrambi, Veltroni e Casini, ansiosi di prendere il posto dei rispettivi leader – che si verificassero tutti i mali di cui oggi, con il tono dello statista preoccupato per il proprio paese, lamentano pubblicamente la gravità. Disgraziato il malato che abbia intorno simili medici, capaci di avvelenarlo di notte per poterlo meglio curare di giorno, tra i sospiri di sollievo dei parenti angosciati.