Il cristianesimo come ideologia

Ringrazio Ignazio Vacca e Marco Beccaria per l’attenzione che hanno dedicato al mio intervento su Left Wing (“L’eredità di Ruini”) e al mio libro sul “partito di Dio”. E dico subito che giudico un segno dei tempi (appunto!) che questa discussione avvenga qui, su Left Wing, e non in una sede, su un sito magari non ufficiale, ma almeno ufficioso, dissenziente, insomma in qualche modo ricollegabile all’arcipelago cattolico. Non mi sembra affatto un caso che si possa discutere qui, con libertà, e non altrove.
Mi sembra che Vacca e Beccaria siano d’accordo almeno su una cosa: negli ultimi decenni il processo di secolarizzazione ha travolto tutte le vecchie categorie con cui la Chiesa pensava se stessa. Per Vacca è un fenomeno dell’ultimo decennio, successivo alla caduta del muro di Berlino, in un quadro in cui tutte le ideologie sono crollate (Dio è morto, Marx è morto e anche noi non siamo messi molto bene…). Beccaria inserisce la rivoluzione antropologica in un percorso di più lungo periodo e in sostanza accusa i cattolici conciliari di aver sottovalutato l’effetto più dirompente di queste novità: l’insignificanza della fede cristiana, anzi, come scrive lui, “il pericolo tremendo dello smarrimento della significanza del fatto cristiano”, con una terminologia cara a don Luigi Giussani e al movimento ciellino. I cattolici democratici e conciliari, rimasti fermi all’ottimismo stile anni Sessanta, alla carezza di papa Giovanni e al discorso della luna (e alla Pacem in terris, alla Gaudium et Spes, a Lazzati, al primo Maritain, eccetera), non si sono accorti che la scristianizzazione stava galoppando anche nelle praterie ecclesiali, e ora sono fuori gioco. Mentre l’ultimo Paolo VI, Giovanni Paolo II e soprattutto papa Ratzinger hanno avvertito drammaticamente questo sentimento di fine della Chiesa e del cristianesimo. E dunque non si può giudicare la strategia politica del cardinale Ruini senza inserirla in questo contesto ecclesiale, come avrei fatto io nel mio libro.
Mi trovo d’accordo con gran parte di questa analisi. Io stesso ho citato il drammatico discorso di Benedetto XVI ai preti in Valle d’Aosta di un anno fa, quello sulle “chiese morenti” in Europa. E ancor più, il lamento di Montini a Castelgandolfo con l’amico Jean Guitton che riecheggiava la tremenda domanda rivolta da Cristo ai suoi discepoli nel Vangelo di Luca: “Ma il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Toni apocalittici, rispetto ai quali passa davvero in secondo piano l’uso che si è fatto dell’otto per mille oppure la ricostruzione del grande centro. Anch’io credo che di fronte a questa sfida gli eredi del cattolicesimo democratico e conciliare siano attualmente inadeguati. Per dirla un po’ in politichese, discutono del metodo e non dei contenuti. Parlano (parliamo?) della democrazia nella Chiesa, della libera circolazione delle idee nel mondo cattolico, della partecipazione dei laici e delle donne alla vita ecclesiale, ma sono diventati afasici sulle grandi domande: la vita e la morte, la solitudine, la ricerca della felicità. La scommessa sulla speranza e non la contemplazione della disperazione. La sfida dell’appartenenza (“cambierei la mia vita se avessi il coraggio di dire la parola Noi”, canta Giorgio Gaber) nel mondo dominato dall’individualismo, come giustamente scrive Vacca. Eppure, la cultura cattolico-democratica, quella del Concilio, era in partenza la più attrezzata ad ascoltare le nuove domande. A trasformarle in questione ecclesiale e questione politica, in senso ampio, strappandole a un certo insopportabile intimismo e spiritualismo cui sono condannate in tanti ambienti cattolici. Era la più attrezzata perché partiva dall’esigenza forte di una fede nuda, la radicalità evangelica di cui parla Giuseppe Dossetti, il recupero dell’essenzialità del “fatto cristiano”, ripulendolo delle incrostazioni che si sono accumulate in due millenni di storia. Ed era più attrezzata perché affidava questo compito non alle gerarchie, a un clero separato dal mondo, ma ai laici credenti, quelli impegnati ogni giorno sul fronte della loro vita.
Le conseguenze ecclesiali e politiche non sono da poco. Invece di commemorare le loro vecchie glorie i cattolici democratici dovrebbero rivendicare con orgoglio queste intuizioni, sui cui invece nella linea Ratzinger-Ruini si aprono le crepe, le contraddizioni più evidenti. La prima è il ritorno dell’identificazione tra cristianesimo e civiltà cristiana. Don Gianni Baget Bozzo ha scritto sul Foglio della scorsa settimana un articolo bellissimo a questo proposito, accusando con logica implacabile Maritain, Mounier e il Concilio di aver spezzato questa identificazione. Così facendo, scrive don Gianni, hanno interrotto anche il principio della tradizione e dell’autorità sui cui si fondano il papato e la Chiesa di Roma. E hanno aperto la strada della secolarizzazione interna al mondo cattolico. Io credo esattamente l’opposto: è stato un dono della Provvidenza, per chi ci crede, che il legame tra cristianesimo e cristianità sia stato rotto: in caso contrario, bisognerebbe ammettere che Cristo era dalla parte dei conquistadores spagnoli e non perseguitato con gli indios, era sulle navi dei trafficanti di schiavi europei e non nelle loro stive, con le popolazioni africane sterminate, significa ritenere che Cristo era sì presente ad Auschwitz, ma nei salotti delle SS e non con Edith Stein o con Etty Hillesum… Riportare in vita il legame cristianesimo-cristianità, e su questa strada poi giudicare l’Occidente, buono se si proclama cristiano, se sventola le sue radici, cattivo se invece se ne allontana, fa il gioco magari dell’integralità della tradizione cattolica, ma non serve a riportare in vita la fede che non sa più parlare agli uomini e alle donne di oggi. E’ un’esigenza puramente ideologica: ricompattare le truppe attorno alle parole d’ordine di ieri, oggi e sempre. La stessa esigenza che ha portato gran parte della Curia romana (capeggiata da Joseph Ratzinger) a contrastare il mea culpa voluto da papa Wojtyla nel Duemila. E che, per esempio, ha lasciato che nel catechismo universale fosse ancora blandamente giustificata la pena di morte. La logica del tradizionalismo, come quella di tutte le ideologie, non ammette cesure: tutto quello che abbiamo fatto e detto in passato è giusto, infallibile.
La seconda contraddizione nella linea Ratzinger-Ruini riguarda il ruolo dei laici. Come ho già scritto, non si tratta di un problema puramente organizzativo. Il ritorno dei cattolici “senza aggettivi” chiude una fase lunga un secolo in cui i laici sono stati protagonisti della storia e della vita civile ed ecclesiale. Laici non clericali, che nella politica,
nell’economia, nella cultura erano presenti con i loro valori ma anche con l’autonomia delle loro scelte e della loro parzialità. Certo che gli aggettivi liberale, conservatore, democratico, progressista introducono conflitti, divisioni. Ma cancellarli mi sembra, ancora una volta, frutto di un’esigenza ideologica. Teniamo unite le truppe attorno alla bandiera dei principi non negoziabili: vita, famiglia, scuola. E poi? Possiamo accontentarci? Nel Cile di Pinochet questi principi erano rispettati: la necessità di avere cristiani presenti in politica e nella società poteva dirsi esaurita? No, abbiamo bisogno di laici che tornino a parlare da laici, non laici che aspettano di farsi battezzare o benedire dal cardinale di turno. Non è una cosa da poco: nella bimillenaria storia della Chiesa laici così sono esistiti solo nell’ultimo secolo, negli anni intorno al vituperato Concilio. Oppure ai tempi di Dante, ma è un’altra cosa.
Insomma, caro Beccaria, sono d’accordo con te, la dimensione politica è un “ulteriore” rispetto a questioni di simile portata. Ma temo che per combattere il relativismo etico, contrastare la rivoluzione antropologica, la Chiesa rischi il
peggiore degli errori: trasformare la fede in un’ideologia. Un’ideologia in cui possono accomodarsi tranquillamente atei devoti, neocon, teocon e affini, ma che non c’entra nulla con il dramma che ci troviamo davanti, l’irrilevanza della parola cristiana. E’ la fede stessa che rischia di relativizzarsi. Che dramma, per i discepoli di Cristo e per la Chiesa. Ma anche per la società occidentale ormai priva di “parole di vita”, eterna e non.