La Cgil sotto il fuoco amico

Per prima cosa, nelle scuole di giornalismo, dovrebbero insegnare che è proprio quando l’indignazione tocca l’apice, quando si ha l’impressione che tutti coloro che si considera responsabili dei peggiori mali del proprio tempo si mettano insieme e insieme congiurino per confermare tutti i propri più radicati pregiudizi nei loro confronti, quello è il momento in cui più che mai occorre misurare le parole. Prenderla alla larga, sorvegliare il linguaggio, procedere per gradi. Passo dopo passo.
Primo passo. Beppe Grillo ha scritto sul suo blog (qui) un post dal titolo “Brigate Cgil”. Invitiamo a leggerlo per intero, ma per coglierne il senso bastano le ultime tre righe: “Farsi qualche domanda può aiutare a capire perché nella Cgil si annidassero dei pericolosi brigatisti. O più semplicemente delle persone che, sbagliando, non vedevano altre vie. Capirne 20 per evitarne 100.000”. Persone che sbagliano. Un’espressione che ne ricorda un’altra, più antica e non più nobile. Beppe Grillo dice che bisogna capirli, i terroristi.
Secondo passo. Minimizzare, persino minimizzare Beppe Grillo, persino minimizzare un post scritto da Beppe Grillo sul suo blog – peraltro uno dei più popolari in rete – a nostro giudizio sarebbe un errore. Non è neanche lui, Grillo, una persona che sbaglia. E’ proprio la persona sbagliata. La persona sbagliata alla quale accompagnarsi, per la sinistra e per il sindacato, l’ultima che si dovrebbe portare a esempio ai propri sostenitori. Ma Beppe Grillo non è isolato, non è un cane randagio, non è un guitto che parla solo per se stesso. E’ parte di una larga schiera di comici, per professione o per vocazione, che va da Sabina Guzzanti a Marco Travaglio, da Dario Fo a Franca Rame, cui tanta parte della sinistra si è a lungo accompagnata. Per la Cgil di Guglielmo Epifani, per il legittimo erede della cupa stagione cofferatiana, potremmo dire pertanto che trattasi di fuoco amico. Un fuoco con cui la sinistra, e soprattutto il sindacato, non avrebbe mai dovuto scherzare.
Terzo passo. Da un certo punto di vista, si potrebbe dire che il discorso di Beppe Grillo non faccia una piega. Da un certo punto di vista, si potrebbe dire che il discorso di Beppe Grillo sia perfettamente coerente e conseguente con le sue premesse. E persino utile, da un certo punto di vista. Come lezione. Nel suo post Grillo si domanda: “Forse in questi sindacalistibrigatisti si è insinuato il dubbio che in Italia esista lo schiavismo? E che i diritti conquistati nel dopoguerra siano stati annullati dalla legge Biagi? Chissà”. Questo è l’abisso morale che i dirigenti della Cgil non possono più fare a meno di guardare. Questo è il motivo per cui le parole di Beppe Grillo meritano di essere lette e meditate, e non minimizzate. Perché rappresentano un modo di pensare che ha messo radici profonde, che si è diffuso ben oltre quello che gli stessi maldestri apprendisti stregoni che l’hanno irresponsabilmente evocato avrebbero mai osato immaginare. Sebbene l’autore quasi certamente non se ne renda conto, nella sua fanciullesca inconsapevolezza, queste poche righe rappresentano infatti il più pesante e il più infamante atto d’accusa, per la Cgil e per l’intero movimento dei lavoratori. Il più pesante e il più infamante, perché scritto con le sue stesse parole, le parole della Cgil – le parole della Cgil cofferatiana della lotta per i diritti non negoziabili, come nella battaglia per l’articolo 18 – distorcendo e ritorcendo contro il sindacato le sue stesse parole. Ma in quello specchio deformante, adesso, la Cgil deve guardare. Questi sono i suoi figli.
Nei momenti difficili occorre procedere per gradi, con calma, passo dopo passo. E poi fermarsi a riflettere. Crediamo che il caso di Beppe Grillo sia estremamente significativo e meriti tale riflessione. Non perché riteniamo che Grillo vada capito. Al contrario, in quelle parole non c’è niente da capire, niente che non sia stato già abbondantemente capito venti o trent’anni fa, davanti ai tanti morti ammazzati per mano di quelli che allora qualcuno, alla maniera di Grillo, chiamava “compagni che sbagliano”. Tutto è terribilmente chiaro, in quelle righe. E’ la loro genesi che bisogna capire, il modo di pensare da cui traggono origine, quella vera e propria malattia morale di cui sono il sintomo. Quanto sia diffusa l’epidemia e come spegnerne i focolai. Questo deve capire la sinistra se vuole tornare a rivedere il suo volto nello specchio. E prima di tutto lo deve capire la Cgil, se non vuole correre il rischio che la spettacolare prova di forza dell’era cofferatiana finisca per essere il suo ritratto di Dorian Gray, capace di restituirle un’immagine di sé solo apparentemente giovane e forte, ma in realtà falsa e fuorviante. Un’immagine di sé nella cui celebrazione la Cgil si è troppo a lungo abbandonata, perduta nella contemplazione della propria esteriore vitalità, mentre la sua anima assumeva gradatamente i tratti di un guitto, deformati da una macabra risata di scherno.