Obama e i dilemmi della politica estera

Non sono molti i meriti che è possibile riconoscere al gruppo di consiglieri neoconservatori di George W. Bush. Se ve n’è uno, però, è quello di aver rilanciato un dibattito alto – non di rado folle o visionario, ma mai stereotipato – sulla politica estera statunitense: sulle sue premesse ideali, sulle sue categorie, sulle sue visioni e sui suoi progetti. Beneficiando delle nuove condizioni create dall’11 settembre e di un presidente chiaramente a corto di idee proprie, i neocon hanno contribuito a mettere in soffitta l’internazionalismo ottimistico e quasi post-politico dell’ultimo scorcio di Novecento. A togliere di mezzo l’idea – avanzata teoricamente da un neocon (ora pentito) come Fukuyama, ma riproposta politicamente da molti democratici, a partire dal secondo segretario di Stato di Clinton, Madeleine Albright – che la storia fosse in fondo giunta al capolinea; che solo qualche barbuto talebano sulle montagne afgane potesse contestare l’inesorabile diffusione e universalizzazione di un ordine internazionale liberale a chiara egemonia statunitense.
Ahimè, tra le vittime del clamoroso fiasco iracheno sembra esservi anche il dibattito sul futuro del sistema internazionale e sul ruolo che vi svolgeranno gli Stati Uniti. La vivacità della discussione del 2002-2004 sembra appartenere a un lontano passato, travolta dai suoi eccessi, dalle sue sciocchezze, ma anche dalla paura politica e intellettuale di emettere una nota fuori dal coro, dopo le azzardate stonature di quegli anni.
Non più americani venusiani ed europei marziani, dunque, non più scontri di civiltà, non più implosioni delle relazioni transatlantiche, ma un sostanziale silenzio, interrotto dalle giaculatorie catastrofiste di qualche terzomondista chaveziano e dalla riproposizione stantia di vecchi slogan dei pochi neocon ancora rimasti, dopo l’abiura e contrizione – spesso rapida e sospetta – di molti sostenitori dei loro progetti come Andrew Sullivan, Michael Ignatieff e come gli stessi, ineffabili, Kagan e Fukuyama.
Tutto ciò si riflette anche sulla campagna per le primarie repubblicane e democratiche. Tra i repubblicani tutti i candidati – con l’insignificante eccezione del congressman del Texas Ron Paul – si dichiarano favorevoli a rimanere in Iraq, senza fissare scadenze precise per il ritiro delle truppe. Eccezion fatta per McCain, però, questa posizione di pseudo-fermezza viene espressa sotto voce o, come nel caso di Giuliani, a labbra serrate. È parte di una strategia di limitazione del danno, dettata dalla consapevolezza che un distacco troppo brusco da un presidente peraltro assai impopolare potrebbe essere considerata un tradimento dall’elettorato militante che voterà nelle primarie.
La situazione è parzialmente diversa tra i democratici. Qui prevale l’idea dell’inevitabilità del ritiro. L’Iraq è stato un errore – affermano in coro i democratici, compresi quelli che a suo tempo sostennero l’intervento militare – e della sconfitta non si può che prendere atto. Il problema politico ed elettorale è come conciliare questa affermazione, che mira a soddisfare le pulsioni della base che andrà a votare, con l’esigenza – fortissima per tutti i principali candidati democratici – di consolidare la propria credibilità presidenziale. Si tratta, ovviamente, di un problema antico, che la situazione assai fluida e peculiare di questa campagna elettorale (era dal 1952 che un presidente o vicepresidente in carica non si candidava alla presidenza) finisce però per esasperare.
Per risultare credibile ed eleggibile, il candidato democratico dovrà trovare un qualche equilibrio tra banalità tipiche del sobrio statista (“l’Iraq è stato un errore, ma sarebbe un errore ancor più grande andarsene ora”), affermazioni atte a rimarcare la distanza dalle posizioni di Cheney e Bush (“Ho votato a favore, ma in nome dell’unità nazionale e ingannato dalle false prove di intelligence prodotte dall’amministrazione”) e invettive radicali (“In Iraq Bush sta mandando a morire senza ragione i nostri giovani”).
È un’improbabile quadratura del cerchio, quella che si chiede agli aspiranti presidenti. Ma nulla è retoricamente impossibile per un candidato presidenziale, come sa bene chi conosce queste campagne elettorali (anche se il Bill Clinton che ha fumato “senza inalare” rimane campione insuperato). A questo stadio si tratta di marcare bene le rispettive posizioni. Edwards e Richardson hanno coperto il fianco sinistro (ritiro subito) giungendo, nel caso di Edwards, a forme di autocritica che non sembrano avergli nuociuto. Hillary Clinton e Joe Biden stanno all’altro estremo: sono gli statisti responsabili che pensano a lungo alla complessità della situazione irachena e sanno che non vi sono soluzioni facili e indolori. Come spesso gli è capitato in questa campagna elettorale, Barack Obama è rimasto schiacciato nel mezzo. E ha reagito a testa bassa, cercando di scavalcare entrambi gli estremi e di allungare così l’asse politico del dibattito tra i democratici. Ha dichiarato di essere disposto ad aprire negoziati senza condizioni con alcuni nemici storici degli Usa (inclusi i leader dei paesi del famoso “asse del male”). Ma ha poi affermato di sostenere eventuali azioni unilaterali statunitensi in territorio pakistano. Si è pronunciato a favore di una deadline precisa per il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, salvo riproporre in più occasioni i topoi e le categorie di quell’interventismo liberal da New Republic che tanta parte ebbe a suo tempo nel giustificare e legittimare intellettualmente l’intervento in Iraq. Si presenta come esponente di un internazionalismo liberale e cosmopolita, ma fa spesso proprie le parole d’ordine del protezionismo sindacale.
Sarà forse una strategia vincente. Di qui ai prossimi mesi tutto può accadere. Per il momento prevale però l’immagine di un candidato leggero, inesperto e superficiale, che subisce la situazione invece di guidarla. Il contrasto è stridente non solo rispetto a Hillary Clinton, sempre più presidenziale negli atteggiamenti così come nelle studiate ambiguità, ma anche con gli altri candidati, che si agitano talvolta con poco costrutto, come nel caso di Richardson (sulla carta, e solo lì, candidato formidabile), che però hanno quantomeno definito una propria posizione nella geopolitica delle primarie. A Obama questo non è ancora riuscito e le sue recenti gaffe non sembrano averlo messo sulla buona strada.