Il dialogo

Walter Veltroni e Silvio Berlusconi dialogano. E questa, nell’Italia di oggi, è una notizia. Viene in mente il famoso quadro raffigurante una pipa sopra la scritta: “Questa non è una pipa”. Non perché quello tra Veltroni e Berlusconi non sia un dialogo, ma perché non dovrebbe essere una notizia. O almeno non dovrebbe esserlo – per ripetere una citazione che è recentemente tornata di gran moda – in un paese normale.
Quello che colpisce non è l’enfasi riservata all’incontro tra il leader del principale partito di governo (il Pd) e il leader del principale partito di opposizione (qualunque esso sia e comunque si chiami). Non c’è ragione di dubitare del fatto che un simile incontro attirerebbe grande attenzione in ogni paese del mondo. Anche l’insistente retorica sull’eccezionalità italiana contiene molte contraddizioni ed è forse più la coda del problema che l’inizio della soluzione. A distinguere l’Italia dai “paesi normali” è forse proprio la continua invocazione della normalità, come se patissimo una sorta di complesso d’inferiorità democratico. Ma forse sarebbe più esatto dire “statuale”. Lo stato italiano, per evidenti ragioni storiche, convive sin dalla nascita con questo acutissimo senso della propria imperfezione, vissuta come una sorta di malformazione genetica. Le librerie sono piene delle diagnosi e delle più diverse proposte di terapia in proposito.
Quello che colpisce è l’enfasi riservata non tanto all’incontro tra Veltroni e Berlusconi, quanto alla stessa parola “dialogo”. Viene da chiedersi – qui sì – se una simile espressione sia traducibile in altre lingue, conservando lo stesso significato politico (spropositato) che da anni assume in Italia. Se cioè in un altro paese sarebbe immaginabile che un grande giornale aprisse la prima pagina con le parole: “Tizio e Caio dialogano”.
C’è però un nesso tra quel complesso d’inferiorità collettivo, l’impossibilità di essere (o almeno sentirsi) normali, e la delegittimazione reciproca tra le forze politiche, che è poi un modo molto parziale di descrivere lo spirito di fazione, la conflittualità endemica che pervade tutta la società italiana e che nasce dal particolarismo. L’Italia non ci piace, insomma, perché non ci piacciono gli italiani, che ovviamente sono sempre gli altri (come recita acutamente il titolo di un recente libro di Francesco Cossiga, che pure non si può dire un simbolo di serena accondiscendenza verso il prossimo).
L’idea che un accordo tra opposte forze politiche non possa nascere che da qualche “scambio sottobanco”, da qualche “inciucio”, da qualche “torbida manovra” non è dunque – soltanto – il frutto di una visione negativa dei partiti e dei loro rappresentanti, né soltanto di un’idea primitiva della politica – basata sulla pura forza, la petizione di principio e il fanatico rifiuto di qualsiasi contatto con l’infedele – perché al fondo è il frutto di una visione pessimistica del carattere nazionale. Meglio tenerli nelle trincee sotto la costante minaccia del fuoco nemico, questi italiani – rifiutando dunque qualsiasi offerta di trattativa – piuttosto che concedere loro un solo giorno di licenza, che sappiamo come lo passerebbero. E noi sappiamo come è andata a finire nel 1997, quando a trattare con Silvio Berlusconi, nella famosa Bicamerale, ci andò Massimo D’Alema. A dimostrazione di quanto poco contino – nella formulazione delle accuse d’intelligenza con il nemico, oggi come allora – il merito della trattativa, la storia personale e le motivazioni dei singoli attori. Leggendo i giornali, in compenso, si direbbe che il clima sia cambiato parecchio. Certo, c’è sempre chi grida allo scandalo, oggi come allora, ma molti nomi illustri mancano ancora all’appello. E’ anche vero, però, che il dialogo è appena cominciato.
Dieci anni dopo, dunque, siamo ancora lì. Punto e a capo. E l’impressione è che il reale oggetto della trattativa – quale legge elettorale e quali riforme istituzionali – sia solo un aspetto, e forse nemmeno il più importante, della partita per uscire dal circolo vizioso di questi quindici anni. Da questa buffa e insieme tragica finzione di guerra civile, giunta ormai alla sua più scadente – e speriamo ultima – replica.