Correnti senza partito

E così, con l’incredibile dichiarazione di Rosy Bindi sulla legge elettorale (“I nostri senatori non voteranno la bozza Bianco”), la retorica veltronian-parisiana del “partito senza correnti” ha già prodotto il suo inevitabile risultato: le correnti senza il partito. Questa è infatti la conseguenza ultima di quanto sabato scorso Walter Veltroni ha deciso e annunciato – due verbi che nel Pd, a quanto pare, sono sinonimi – nel corso di un pubblico convegno, a beneficio di telecamere e giornalisti.
Alla decisione di andare da soli alle prossime elezioni, presa e annunciata nel momento più difficile per la tenuta della maggioranza, la risposta più significativa di Rosy Bindi e Arturo Parisi non è stata lo scontato: “Veltroni lavora per le elezioni anticipate”. La vera risposta della componente ulivista del Pd, che ha già annunciato l’intenzione di costituirsi in “associazione” – che non è mica una corrente, sia chiaro – sta tutta nelle parole: “I nostri senatori non voteranno la bozza Bianco”. Nemmeno i più spregiudicati capicorrente della vecchia Democrazia cristiana, in cinquant’anni di manovre e congiure, si erano mai sognati di dire: “I nostri senatori”. Segno che non c’è nessun partito, né democratico né antidemocratico, ma al massimo una federazione di correnti, prima tra tutte quella ulivista, che già cominciano a porre veti.
Lo scissionismo ulivista è però la conseguenza di una contraddizione insanabile in cui sono rimasti impigliati per primi gli ex ds, perché c’è un solo modello di partito politico senza correnti, il modello leninista, dove per l’attività “frazionistica” era prevista l’espulsione (quando andava bene). In compenso, ai tempi di Lenin, c’era almeno un vivace dibattito all’interno del comitato centrale del Pcus e al vertice del Komintern, dove dirigenti quali Trockij e Zinovev potevano anche permettersi di esprimere apertamente il proprio dissenso. Ma negli organismi dirigenti direttamente nominati dal segretario del Pd, al momento, non pare di scorgere né molti Trockij e Zinovev, né alcun dibattito degno di questo nome. Di qui le proteste degli ulivisti per il clamoroso annnuncio di Veltroni e la loro reiterata richiesta di riunire l’assemblea costituente, come unico organismo democraticamente legittimato. Richiesta che la Bindi e Parisi avanzano però dopo averne di fatto già disconosciuto l’autorità, dichiarando preventivamente la posizione dei “loro” senatori. Dall’altra parte, diessini e popolari appaiono del tutto subalterni alla retorica ulivista (che è poi una variante raffinata del grillismo), gli uni per formazione e per storia – il dogma dell’unità e la lunga pratica del centralismo democratico – gli altri per allontanare da sé il marchio infamante del vecchio correntismo democristiano. E pertanto, gli uni e gli altri, incapaci di battersi a viso aperto non solo contro il ridicolo – la risibile ipocrisia delle correnti di pensiero – ma innanzi tutto contro una pericolosa regressione culturale. Pericolosa, perché le correnti stanno alla democrazia di un partito come i partiti stanno alla democrazia di uno stato: non si dà l’una senza gli altri. E infatti non deve stupire che la vulgata antipolitica, in realtà semplicemente antidemocratica, sia ostile tanto ai partiti quanto alle correnti.
In fin dei conti, con le loro rispettive dichiarazioni, Veltroni e Bindi si sono comportati allo stesso modo, mostrando identico disprezzo per ogni forma di democrazia interna e di responsabilità collettiva. Ma è la Bindi a essere in contraddizione con se stessa, perché un “partito senza correnti” non è e non può essere altro che un partito del capo, il quale di volta in volta può decidere se, come e quando consultare la platea degli aderenti o quella degli elettori, attraverso consultazioni che sarebbe più corretto chiamare plebisciti.
Naturalmente conosciamo anche noi l’obiezione: ulivisti, diessini e popolari non vogliono le “vecchie correnti”, intese come “centri di potere”, ma sono ben contenti di organizzarsi in “correnti di pensiero”, intese come garanzia del pluralismo. Ma quando si pensa di risolvere i problemi cambiando nome alle cose, significa che la partita è già finita. Purtroppo, però, i cantori della Seconda Repubblica vogliono continuare a giocare. La retorica nuovista contro i partiti e le correnti, in ultima analisi, nasce da quello stesso filone di pensiero – dall’evocazione di un presunto “spirito del maggioritario” al feticismo referendario – che porta Veltroni a definire il problema dell’Italia come “crisi della capacità di decisione della politica” – come un problema, ancora una volta, puramente istituzionale – in piena coerenza con la sua vecchia idea del “Sindaco d’Italia”. Uno slogan coniato, non per nulla, da Mario Segni. Eppure il caso più eclatante portato a esempio da quanti sostengono queste tesi, il caso dei rifiuti in Campania, arriva proprio dalla patria di quella rivoluzione maggioritaria i cui campioni, i sindaci, hanno avuto tutti i poteri e la stabilità di governo che potevano desiderare. Dunque non si capisce per quale ragione gli ulivisti se la prendano con Veltroni, quando parla e agisce da “Sindaco del Pd” (e del centrosinistra tutto, con tanti saluti a Romano Prodi).
Dinanzi ai molti problemi irrisolti, non pare di aver sentito finora idee rivoluzionarie, né pare di aver visto leader politici che le abbiano portate avanti con coraggio e che siano stati impediti nella loro audace azione riformatrice da perversi “meccanismi istituzionali”. Si sono viste e sentite soltanto molta retorica e molte banalità, nel tentativo di tenere insieme tutto e il contrario di tutto, nascosti dietro l’alibi della “burocrazia che ci lega le mani”. In una recente intervista, parlando delle tante difficoltà del paese, Goffredo Bettini ha detto: “Pensi in che condizione ci troveremmo se non avessimo parlato di vocazione maggioritaria, di ambientalismo del sì, di democrazia che decide”. La nostra impressione è che senza tali dichiarazioni sarebbe successo esattamente quello che è successo finora, cioè niente. Niente di nuovo sotto il sole di un centrosinistra sempre più liquido, per non dire liquefatto, forse semplicemente in liquidazione.