L’America che non vuole rischiare

I riti di fine anno sono innumerevoli. In musica il rito dei riti è quello di compilare classifiche. Migliore album, migliore canzone, migliore voce, migliore questo, migliore quell’altro. Un esercizio, appunto, rituale, con la rete che come al solito fa da moltiplicatore di tutto. Ma una cosa che salta all’occhio è che da Pitchfork a LesInrockuptibles a Rolling Stone fino all’ultimo dei blogger musicofili, non c’è stata classifica che non abbia incluso tra i Best of 2007 due gruppi bianchi “storici” quali i Radiohead, inglesi, e gli Wilco, americani (la sottolineatura sul colore della pelle è necessaria perché dal discorso è da intendersi esclusa la black music). Si tratta di due gruppi sufficientemente rappresentativi di un modo molto diverso, in Europa e oltreoceano, di organizzare lo spazio sonoro all’interno del quale collocare la propria produzione.
E’ un fatto che larga parte delle band di punta della scena americana privilegi un tipo di suono che non mira a soluzione innovative, che non prova a esplorare strade nuove, e qui non si ha in mente soltanto il mancato ricorso alle infinite opportunità che l’elettronica offre in termini di creazione ed elaborazione del suono. La grandezza di un artista americano del calibro di Tom Waits, tanto per fare un esempio, è in larga misura dovuto alla rivoluzione sonora messa in atto nei primi anni Ottanta, quando dopo un certo numero di album tutto sommato classici (alcuni dei quali comunque di indubbio valore, quali “The heart of Saturday night”, “Small change” o “Blue Valentine”), viene prodotta una frattura, viene tracciata una linea di demarcazione che individua in maniera netta un prima e un dopo. Il riferimento è a due album fondamentali come “Swordfishtrombones” (1983) e “Rain dogs” (1985), con il primo che ha innanzitutto una rilevanza storica visto che è lì che Tom Waits getta le basi della nuova estetica, e il secondo che è una pietra miliare della musica degli ultimi decenni, in cui il nuovo progetto viene sviluppato e portato a livelli mai più raggiunti dallo stesso autore. Si tratta di due album in cui l’artista californiano abbandona lo schema tradizionale voce-basso-chitarra-pianoforte (e poco altro), con l’idea di sporcare il suono, di stravolgerlo, di renderlo più affine alle storie che vengono raccontate, attraverso l’introduzione di strumenti non elettronici del tutto insoliti per la scena rock-blues (double bass, accordion, banjo, trombone, congas, marimbas, pump organ).
Venendo a questi ultimi anni, quale grande artista americano ha scelto un rischio simile? Chi ha avuto la forza di decidere di non rassicurare più, spiazzare il proprio pubblico, anche di deludere, rimettendosi completamente in gioco, pur essendo già avviato lungo la strada tranquilla del successo sicuro e dei fan immarcescibili? Ma anche mettendo da parte l’ipotesi della svolta, del cambio repentino, quanti tra i musicisti bianchi americani hanno fatto dell’immediata riconoscibilità del suono un elemento portante della loro musica? Tra i grossi nomi ci viene in mente quello di Beck, con la straordinaria obliquità dei suoi primi album (“Mellow gold” e “Odelay”, ma qui parliamo di un apice raggiunto già diversi anni fa), ci viene in mente quello di Laurie Anderson (e anche qui bisogna andare parecchio indietro nel tempo), ma poi cos’altro? Ritornando al presente, e anche andando al di là degli Wilco, lo stesso discorso può essere ripetuto per altri gruppi nordamericani che hanno pubblicato nel 2007 album molto apprezzati dalla critica, come LCD Soundsystem o i canadesi Arcade Fire (e ci vengono in mente anche i Tv on the Radio che hanno letteralmente spopolato nelle classifiche del 2006). I primi per la verità una riconoscibilità più o meno immediata ce l’hanno pure, col loro suono secco e asciutto di derivazione Talking Heads, ma è innegabile che il passaggio dal primo al secondo album sia avvenuto un po’ col freno tirato, come se già si intuisse la preoccupazione di non deludere aspettative (si pensi invece a uno come David Byrne, loro palese ispiratore, che certi problemi di spiazzamento non se li è mai posti nella sua lunga carriera, a cominciare dal passaggio-choc, poco meno di trent’anni fa, da un album classico come “Fear of music” a uno zeppo di esperimenti come “Remain in light”). Anche negli Arcade Fire si percepisce alla fine una preoccupazione analoga, c’è una certa pesantezza di suono e di canto, con un controllo maldestro del fragile equilibrio di ciò che si vuole dire rispetto a come lo si vuole dire, e tutto mal si concilia con l’intenzione più o meno dichiarata, o forse semplicemente loro attribuita, di puntare direttamente e decisamente in alto.
Molto diverso invece ci appare il discorso per la scena inglese, della cui vivacità in termini di innovazione stilistica si potrebbero dare numerosissimi esempi. Ci verrebbe da dire innanzitutto di due movimenti fondamentali, la cosiddetta scuola di Canterbury, anni Settanta, e la scena trip-hop di Bristol, anni Novanta. Quanto ai celebratissimi Radiohead, la loro traiettoria è stata caratterizzata da cambiamenti stilistici sostanziali avvenuti in momenti di fama già acquisita e consolidata. Si parte dal rock semplice degli esordi (“Creep”) per andare alle forme già più complesse di un album fondamentale come “Ok Computer”, per finire al rovesciamento prospettico dei successivi “Kid A” e “Amnesiac” di cui si sente ulteriore evoluzione nell’ultimo “In Rainbow”. Insomma, comunque lo si giudichi, piaccia o meno, questo è un gruppo che non è mai apparso paralizzato dal rischio. Nei Radiohead si percepisce una tensione costante, il desiderio di non sedersi mai, come purtroppo molte band bianche americane sembrano preferire. È una fotografia oggettiva, questa, non un parlare da fan (ché di loro fan non siamo), per cui, parafrasando il vecchio gergo di certi rapper, ci verrebbe naturale scrivere a chiare lettere: “Massimo rispetto per i Radiohead”. Thom Yorke e i suoi amici ci piacerebbero forse un po’ diversi: minore gravità, minore pathos, minore propensione a farsi carico delle sorti di questo mondo, ma è gente che un posto di prim’ordine nel ranking musicale dei due o tre ultimi decenni se l’è meritoriamente assicurato. Un po’ inaspettatamente e non senza che questo produca delusione, una controparte americana invece ancora non sembra profilarsi all’orizzonte.