Perché Obama ha già vinto

Ho provato ad argomentare altrove (mariodelpero.italianieuropei.it) che salvo cataclismi inimmaginabili Obama arriverà alla convenzione di Denver con una maggioranza chiara di delegati. Non vi sarà insomma una situazione di virtuale pareggio e non sarà possibile per Hillary Clinton conquistare la nomination senza un colpo di mano, che spaccherebbe il partito e pregiudicherebbe le possibilità di riconquista democratica della Casa Bianca. Una frase di quel breve post – nella quale sottolineavo come Clinton avesse avanzato proposte “più coraggiose e progressiste” su alcuni “temi nodali” e in particolare sull’annoso problema della riforma sanitaria – ha indotto taluni a etichettarmi come clintoniano e a riaprire la discussione, invero assai provinciale, su chi sia più di sinistra tra Obama e Clinton. Provo qui a offrire un paio di considerazioni su entrambi i punti.
Delegati, convenzione e candidatura, innanzitutto. Obama ha oggi un margine di vantaggio attorno ai 160/170 delegati, che scende a 130/135 se si considerano i superdelegati già schierati. Questi ultimi sono poco meno di 500 su un totale di 800. 300 superdelegati devono ancora dichiarare per chi voteranno. Alcuni hanno però già fatto sapere che rispetteranno il voto delle primarie o la scelta del loro stato. Un piccolo gruppo aveva appoggiato Edwards (30/40) o Richardson (una ventina). È presumibile, ma non certo, che essi appoggino Obama o, ancor più, si astengano dallo scegliere. In cosa può sperare Hillary Clinton? In una grande vittoria in Pennsylvania, ci dicono i suoi sostenitori, e in un nuovo voto in Michigan e Florida, gli stati che avevano deciso di anticipare le loro primarie, violando le regole definite dal partito e vedendosi quindi privati della propria rappresentanza alla convenzione. In Pennsylvania saranno eletti 158 delegati. Se anche Clinton dovesse trionfare (diciamo vincere con quindici punti di scarto) recupererebbe al massimo 20/25 delegati. Sembra ogni giorno più improbabile che Michigan e Florida tornino a votare. Ma proviamo comunque a immaginare la proiezione di un eventuale voto. Sono due stati complessi e importanti, che mettono sul piatto poco più di 300 delegati. Una vittoria netta della Clinton (dieci/quindici punti percentuali?) le potrebbe permettere di recuperare al massimo tra i 40 e i 60 delegati. Tra gli stati in cui si deve ancora votare vi è peraltro anche il North Carolina (115 delegati) dove Obama è favorito. Stravincendo in Pennsylvania e rivotando (e stravincendo) in Michigan e in Florida, Clinton può sperare di recuperare al massimo 70/80 voti. Arriverebbe comunque alla convenzione con un distacco di 80/100 delegati, ben superiore alla soglia minima per poter rivendicare una sorta di pareggio e lasciare che la convenzione stessa decida. Recupererebbe di più sul voto popolare, che la vede distanziata di circa 700mila voti da Obama, ma anche in questo caso è difficile immaginare possa colmare il gap (su questo sono meno sicuro, anche perché è impossibile capire quale partecipazione vi potrebbe essere in Florida e in Michigan). Può cercare un colpo di mano alla convenzione, come ho ricordato. E lo può fare invocando una legittimità che verrebbe dal fatto di aver vinto stati cruciali e potenziali swing states in novembre (Ohio e Pennsylvania su tutti) e di aver perso in quella forma grottesca di voto tribale che sono i caucus. Mi sembrano però giustificazioni deboli e comunque inaccettabili per la gran parte dei sostenitori di Obama. La scelta della Clinton contro l’esito delle primarie sarebbe la rovina dei democratici.
Destra e sinista, Obamian-Veltroniani e Clintonian-dalemiani, infine. Confesso che mi sembra una discussione surrealmente provinciale (parochial, si direbbe negli Usa). Anche perché le categorie politiche nostrane davvero mal si adattano alla politica Usa. Obama è spesso vago e generico nelle sue proposte politiche, anche se meno di quanto molti non amano sostenere. Hillary Clinton è precisa e competente, anche se meno di quanto non vogliano far credere lei e i suoi supporter (la competenza e l’esperienza erano peraltro a disposizione nelle primarie democratiche – in figure come Biden, Dodd e Richardson – ma gli elettori hanno dimostrato di cercare altro). Sulle tematiche sociali Clinton si è mostrata indubbiamente più coraggiosa. Sulla politica estera Obama è oscillato in modo incoerente. Ma è difficile dare un giudizio positivo della linea rigida assunta dalla Clinton, culminata nel suo assurdo voto al Senato sulla guardia rivoluzionaria iraniana bollata come organizzazione terroristica (di nuovo, è stato un liberal moderato e competente come Biden a muovere la critica più incisiva alla decisione della Clinton). Sulla strategia e la mobilitazione grassroot, infine, preferisco di gran lunga la linea Obama-Dean e l’idea che per essere competitivi negli swing states bisogna essere attivi, presenti e forti ovunque. Detto questo, la cosa principale è che i democratici evitino il suicidio. Ci piaccia o no, ciò può avvenire solo se Obama ottiene la nomination.