Quelli che i bamboccioni

Io ero rimasto al punto in cui la parola “bamboccioni”, uno di quei termini che nel lessico nazionale se ne escono all’improvviso dalla crisalide per vivere la loro effimera stagione, significava più o meno una cosa come “uomo o donna già verso/oltre la trentina, di scarso talento e ancor più scarsa intraprendenza che, incapace di trovare una prospettiva autonoma di vita, preferisce rimanere sotto l’ala protettrice dei genitori”. Complice l’inopinato scivolone della Nazionale nella partita di apertura dell’Europeo contro l’Olanda guidata da Marco Van Basten, ecco che il termine è ricomparso l’11 giugno, l’indomani della sconfitta, in un articolo di Edomondo Berselli su Repubblica, per designare i giocatori azzurri.
Ora, non è che da ogni italiano, giornalista o meno, che si cimenta nell’arte di commentare il calcio e lo sport in genere (cioè da ogni italiano, punto) ci si possano aspettare l’acume, l’arguzia e la scrittura di un Brera. Però, insomma, Berselli scrive su Repubblica, non conciona appoggiato al bancone del bar sport sotto casa.
Il punto è che, con ogni evidenza, l’attribuzione di bamboccismo ai calciatori della Nazionale non sta in piedi da nessuna parte la si appoggi: quelli sono professionisti superpagati, che sono stati capaci di emergere tra centinaia di migliaia di aspiranti tali, spesso in età in cui il resto degli italiani va ancora a scuola. Ed è paradossale (giacché le idee bislacche non possono non generare paradossi) che lo stesso moralismo che ha portato alla scelta di quella parola si incarni poi in quell’idea che ne è la contraddizione logica, ovvero l’esecrazione del fatto che ormai tutti i giovani italiani maschi vogliono diventare, appunto, calciatori (e se femmine veline, che poi si accoppiano coi calciatori). Verrebbe da dire: si scelga. O bamboccioni o modelli imitati, invidiati, idolatrati. Aut aut. Inoltre, anche a non voler considerare posizione sociale e conto in banca, quella è gente che ha raggiunto risultati professionali più che eccellenti, magari anche andando a cercare soldi e fortuna all’estero. Per tacere di chi nel corso della sua carriera ha vinto campionati, Champions League, Palloni d’Oro e classifiche dei cannonieri, parecchi di loro un paio di anni fa sono diventati campioni del mondo. Campioni. Del. Mondo. Forse Berselli immagina che, se esistessero i campionati del mondo dei giornalisti, lui vincerebbe a mani basse. Infine, Berselli (e con lui tutti coloro che si sono dimostrati pronti a scaricare gli Azzurri alla prima scoppola) sembra ignorare la banale constatazione che nel calcio e nello sport non si può sempre vincere. Che la vittoria è la splendida eccezione, anche e soprattutto a quei livelli. La qual cosa è un po’ come dire: la palla è rotonda. Ecco. A Berselli bisognerebbe rispondere “la palla è rotonda” e finirla lì. E se proprio non si volesse rinunciare a fare della sociologia, allora perché non considerare come tratto distintivo dell’indole nazionale, piuttosto, quell’attitudine diffusissima proprio tra i giornalisti, ovvero quella di invocare ogni volta l’Uomo della Provvidenza (Del Piero dopo l’Olanda e in questi giorni – dopo la prestazione non decisiva dello juventino contro la Romania – Cassano), comprensiva di ventenni di giubilo e di “io l’avevo detto” in caso di successo, e di piazzali Loreto mediatici in caso di sconfitta?
Insomma, forse tutto questo ce lo meritiamo. Forse non ci meritiamo una Nazionale che, dopo aver vinto il Mondiale faccia il miracolo, sconfigga la Francia e vada a prendersi pure l’Europeo. La qual cosa, in barba a tutti, potrebbe pure capitare. Perché la palla è rotonda, naturalmente.
Nel caso, io l’avevo detto.