Foto di famiglia nel Pd

All’assemblea costituente del Pd, Gianni Cuperlo ha parlato di una vecchia foto di famiglia che da troppo tempo rappresenta il gruppo dirigente, sempre lo stesso da quindici anni. Un gruppo dirigente che oggi dovrebbe dunque preoccuparsi innanzi tutto di favorire l’emergere di nuovi protagonisti, e poi farsi da parte.
La tesi non è nuova, ma è naturale che torni a imporsi dopo la sconfitta elettorale, e soprattutto dopo il dibattito che a quella sconfitta è seguito. Forse, però, si potrebbe fare un passo avanti. E in questo è certamente utile l’equilibrato intervento di Cuperlo, che aiuta a uscire dalla consueta e un po’ stucchevole girandola di opinioni tra sostenitori del nuovo che avanza e avanzi del vecchio che non vuole retrocedere, in cui ovviamente chi parla – di volta in volta – è sempre il nuovo, e se la prende con gli altri che sarebbero il vecchio, fino al successivo giro di giostra.
Per fare un passo avanti bisognerebbe domandarsi perché la “famiglia” ritratta in quella foto si è dimostrata così longeva. Le ragioni di tanta longevità stanno secondo me nella storia di questo quindicennio e in particolare nella capacità che Silvio Berlusconi ha avuto – e altri hanno subito – di imporre una riorganizzazione del sistema politico imperniata sullo schema a lui più congeniale, vale a dire intorno a una visione fortemente polarizzante di quel sistema – conseguenza di un maggioritario, potremmo dire, a vocazione bipartitica – che dei partiti ha essiccato radici, autorità e funzione, rendendoli sempre più simili a grandi comitati elettorali al seguito del leader carismatico di turno. Per chi aveva il denaro e i mezzi di comunicazione, per il miliardario “prestato alla politica”, appare evidente la convenienza di un sistema incentrato su polarizzazione, personalizzazione e mediatizzazione dello scontro – in breve, sulla “spoliticizzazione” della politica. Così come evidente dovrebbe apparire la non convenienza di un simile sistema per quelle forze che invece proprio nelle risorse classiche della politica – a cominciare dai grandi partiti organizzati, ma non solo – avevano le loro uniche armi.
Resta un mistero, pertanto, la spensierata leggerezza con cui parte consistente di quelle forze si è acconciata allo spirito del tempo: alla costante campagna contro ruolo e prerogative dei partiti, contro ogni forma di democrazia e di articolazione al loro interno – subito bollata come “correntismo” – in definitiva contro ogni istanza che fuoriuscisse dal paradigma del partito-comitato elettorale, privato cioè di qualsiasi capacità di vita autonoma. La verità è che in questi anni ha prevalso, con Berlusconi, anche il modello berlusconiano di partito: un partito personale, nella esclusiva e totale disponibilità del leader. Ma quel modello ha attecchito così facilmente anche perché ha trovato un terreno accuratamente dissodato, nel frattempo, da una cultura politica fattasi sempre più ostile a qualsiasi idea di contrappeso istituzionale e di garanzia democratica. Un nuovo senso comune che ha aperto la strada, sul piano inclinato di sempre nuove riforme istituzionali e costituzionali, formali e “materiali”, a una sorta di presidenzialismo di fatto, in verità estraneo a qualsiasi democrazia matura: il trionfo della retorica del “decisionismo” contro i “lacci e lacciuoli” delle burocrazie e degli apparati, quasi una forma di “neoliberismo politico”. Una visione che però non tiene conto di come, dinanzi alla perdita di auctoritas di chi dovrebbe decidere, non c’è rafforzamento dei poteri sufficiente a rendere quella decisione “rispettabile”, perché parossismo decisionista e crisi dei cosiddetti corpi intermedi – cioè di quelle reti di relazioni organizzate che costituiscono il sistema nervoso centrale di qualsiasi sistema democratico – sono in realtà due facce della stessa medaglia.
Certo, il Partito democratico è ancora ben lontano dal fondo di una simile china. Per il Partito democratico è pienamente immaginabile – come lo è stato, prima, per i partiti da cui è nato – un congresso in cui il leader sia sconfitto e debba passare la mano, al contrario di quanto potrebbe dirsi per Forza Italia prima e per il Pdl oggi (ma anche, volendo fare un solo esempio, per l’Italia dei Valori). Il problema, semmai, è se questa possa essere l’unica differenza che distingua il Pd dagli altri partiti che negli ultimi quindici anni al modello Forza Italia si sono via via adeguati; se alla fine, cioè, dobbiamo rassegnarci alla scelta tra una monarchia ereditaria, in cui il sovrano è tale per diritto di sangue (o per diritto di proprietà) e una monarchia elettiva. Ma se questa appare attualmente la vita interna del Pd, come si può pensare che da qui nasca una nuova leva di dirigenti giovani e forti? E che i tanti dirigenti capaci che nel Pd sono impegnati, in giro per l’Italia, escano da una dimensione puramente locale? Se questa è la palestra, non c’è da stupirsi se poi si legge sui giornali di un cenacolo di quarantenni che per incontrarsi e discutere devono farsi convocare da uno dei protagonisti di quella famosa foto di famiglia che si vorrebbe archiviare. E si capisce anche perché in questi anni, in cui tanto si è discusso di rinnovamento della politica, questa generazione non sia riuscita a proporre uno straccio di idea, un motivo di aggregazione che non fosse il proprio essere “i giovani”, e come tali ansiosi di venire promossi dirigenti, ministri e leader, per dir così, ope legis – in nome, magari, di una battaglia per la meritocrazia e la valorizzazione dei talenti.
E’ evidente che siamo di fronte a una crisi di prospettiva che non può essere affrontata ricorrendo semplicemente al mantra del rinnovamento per il rinnovamento, ma nemmeno affidandosi all’altro grande ritornello di questi mesi: il rimescolamento tra le diverse anime del Pd. E’ vero che siamo nel secolo del cross-over, ma in politica ci si può rimescolare se si ridefiniscono le appartenenze attorno a una nuova lettura della realtà, e lo si fa, possibilmente, da un punto di vista autonomo. Se il rimescolamento non è la conseguenza di questo processo, ma l’unico obiettivo del processo – il rimescolamento per il rimescolamento – allora non si tratta di ricambio, ma di maquillage. E non è nemmeno una gran novità, ma il solito gioco della sedia, come quello che si faceva alle feste da ragazzi.
Per interrompere questa musica non sarebbe male se ogni tanto qualcuno di quelli che vogliono candidarsi a guidare il rinnovamento dicesse qualcosa che non abbiamo già letto sui giornali. Bisogna spostare la macchina fotografica, insomma, allargare la visuale e cambiare la scena, non limitarsi a metterci davanti una nuova generazione, senza sapere in cosa si distingue dalla vecchia, salvo per qualche ruga in meno. La nuova generazione del Pd potrebbe essere composta pure di ultraottantenni, se questi fossero davvero capaci di spiegare perché l’esito ultimo di questo quindicennio è stato per noi una cocente sconfitta – l’esito di questo quindicennio, attenzione, non solo degli ultimi dieci mesi – nonostante la straordinaria intuizione del Pd, e nonostante il merito storico di avere evitato il collasso del paese, portandolo a una piena e convinta europeizzazione. Ecco un buon terreno su cui mettere alla prova le nuove leve, quale che sia la loro età. Perché sarà in questa discussione che si misurerà la capacità di una classe dirigente di sfidare convinzioni consolidate, riflessi condizionati, nuovi e vecchi tabù.
Non c’è bisogno di pretendere da un giovane dirigente appena uscito dalla sezione – chiedo scusa: dal “circolo” – che vada su un palco per dire che la definizione di “casta” e tutta la campagna che si è montata attorno a quel fortunato saggio (con tutto il rispetto che il fortunato saggio merita per le giuste denunce e la sacrosanta operazione di verità che contiene), come dicevano i classici, è una cagata pazzesca. Basterebbe molto meno. Anche solo che quel giovane dirigente mostrasse la forza e la linearità intellettuale sufficienti a chiarire, al primo dibattito, che la parola “valori” dovrebbe essere bandita al più presto dal vocabolario del nostro partito, e che rispondere alla retorica dei valori di matrice neoconfessionale agitando il “valore della laicità” significa avere già perso la battaglia, perché al partito sta il compito di definire gli obiettivi concreti di un’azione collettiva, e solo al singolo di valutare la corrispondenza di questi obiettivi ai propri “valori” (questo, almeno, se vogliamo costruire un partito moderno, laico e pluralistico, che non è né una setta religiosa né un partito stalinista, ossessionati dalla purezza spirituale o ideologica dei propri componenti). Basterebbe, per fare un esempio più concreto, che all’intervento di Cuperlo ne seguissero altri. E che stessero al tema, che non è – attenzione – vorrei sapere, gentilmente, quando arriva il mio turno. Ma semmai: penso che ora sia proprio arrivato il mio turno, perché penso che ci siano alcune cose da fare, alcune cose che dobbiamo fare tutti assieme, e che io vedo così. Questa è la discussione, che viene prima di qualsiasi dibattito sui grandi temi e le grandi sfide del grande mondo globale, perché riguarda una questione preliminare e ineludibile – anche per potere poi credibilmente affrontare tutte le altre – perché riguarda il modo in cui stiamo insieme. Almeno, io la vedo così.