Sogni americani

“Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore”, cantava Enzo Jannacci, descrivendo il sogno di “un bel mondo sol con l’odio, ma senza l’amore”, dove “ognuno sia già pronto a tagliarti una mano”. Qui sta però, purtroppo, il difetto di tutti gli intellettuali italiani: quando servirebbero, non si trovano mai.
Non c’è bisogno di aggiungere altre parole alle molte che sono state dette sull’importanza di queste elezioni americane, sul loro valore simbolico, sul significato storico e veramente mondiale che ha assunto la vittoria di Barack Obama. Qualche significato ha però anche la sua prima conferenza stampa da presidente eletto degli Stati Uniti d’America, giustamente dedicata alla crisi economica, dove Obama è apparso attorniato dal folto gruppo dei suoi consiglieri. Tra gli altri: il presidente di Time Warner, l’amministratore delegato di Google, l’ex presidente di Citigroup, il presidente di Xerox, Warren Buffett (e ci scusiamo con la Goldman Sachs se per pigrizia abbiamo omesso di controllare i suoi attuali o ex titolari convocati in nazionale, che saranno certamente numerosi e non meno autorevoli).
Nel frattempo, a leggere i giornali italiani, si direbbe che il merito della vittoria di Obama vada equamente diviso tra Walter Veltroni e Ivan Scalfarotto (ben prima di Obama, nell’ottobre del 2005, “candidato della Rete” alle primarie contro Romano Prodi). Ma anche senza idealizzare i democratici americani e il loro leader, rimane piuttosto difficile non cogliere alcune significative differenze tra la corsa impossibile di Obama, che alle primarie dei democratici americani non partiva certo come favorito, e la comoda passeggiata che ha condotto Veltroni alla sua scontata e contraddittoria incoronazione, facilitata da una congerie di liste di sostegno che già anticipavano chiarissimamente tutte le difficoltà che si sarebbero presentate dopo, tra una lista “A sinistra per Veltroni” e una “A destra per Veltroni”, tra “Democratici per Veltroni” e “Antidemocratici per Veltroni”. Contro Enrico Letta e Rosy Bindi, ciascuno con la sua unica piccola lista, sembrava una di quelle pubblicità del Gratta e vinci, dove una squadra composta di centinaia di giocatori scende in campo contro gli undici smarriti avversari, all’insegna del motto: “Ti piace vincere facile?”. Allo stesso modo, abbiamo oggi la destra per Obama, i neocomunisti per Obama (Liberazione ha addirittura ammonito Veltroni a mettere “giù le mani” dal suo presidente preferito) e presto, senza dubbio, avremo anche i neofascisti per Obama.
“L’Italia è un paese bloccato, apriamoci ai giovani o non si cresce”, ha detto Luca Cordero di Montezemolo, commentando le elezioni americane in un’intervista a Repubblica. “La vittoria di Barack Obama – ci ha spiegato – è la dimostrazione che la mobilità sociale e il riconoscimento del merito sono i motori della democrazia e dello sviluppo”. E di Jannacci neanche l’ombra.
La verità è che la foto della conferenza stampa in cui il primo presidente nero della storia promette aiuti per la classe media circondato dai magnati della finanza, così come la surreale baldanza dei suoi tanti imitatori italiani, ci dice che il cambiamento è sempre possibile, ma non è mai scontato. Ci dice che le cose possono cambiare più di quanto oseremmo mai immaginare (noi, per esempio, non pensavamo fosse possibile che Obama vincesse le primarie, figurarsi le elezioni) e al tempo stesso che nessuna vittoria, purtroppo, è mai definitiva. Ma questo, almeno per noi italiani, ha anche un aspetto consolatorio, perché comporta che non lo è mai neanche la sconfitta.