Gli ultimi giorni del Pd

“Beh? Puntavamo al premio della critica”, diceva Walter Veltroni all’indomani delle elezioni in una vignetta apparsa su “M”, il supplemento satirico dell’Unità che proprio oggi, dopo l’annuncio della chiusura, va in edicola con il suo ultimo numero. Vittima, più che della crisi economica, della concorrenza spietata che sul Partito democratico gli facevano ormai quotidianamente le pagine di cronaca di tutti i giornali. Volete un esempio recente? Marina Sereni su Liberazione di venerdì scorso: “Siamo un partito grande, non possiamo ridurci a un’unica linea politica”. Ne volete un altro più significativo? Walter Veltroni sul Sole 24 Ore di mercoledì: “Il problema dell’Italia è che non ha mai avuto una storia riformista: non c’è mai stato nulla di paragonabile a una Thatcher o a un Blair, a un Brandt o a un Aznar”.
Non offenderemo l’intelligenza del lettore spiegandogli per quale ragione sorprenda, in un simile consesso, la presenza di Margaret Thatcher (o di José María Aznar). Ma la ragione per cui Veltroni l’ha scelta è perfettamente spiegata da quella mirabile vignetta: il premio della critica. E’ tutto lì. Per le motivazioni rivolgersi a Francesco Giavazzi, Alberto Alesina o Tito Boeri.
Negli ultimi tempi abbiamo scritto poco, qui sopra. Un po’ perché abbiamo anche altro da fare, un po’ perché ci veniva tristezza. Questo piccolo spazio è nato nel dicembre del 2003 per sostenere – da sinistra – la fondazione di un partito riformista, come lo si chiamava allora. E possiamo giurare che nessuno di noi avrebbe mai pensato di iscrivere nella storia del riformismo il nome della Thatcher. Siamo sempre stati per una sinistra di governo, e questo chiediamo a un partito: che per andare al governo non smetta di essere di sinistra e che per essere di sinistra non smetta di porsi l’obiettivo del governo. Poi lo si chiami come si preferisce. Non è un problema di parole, simboli e bandiere, che pure hanno la loro importanza, ma che la loro importanza traggono dall’esperienza concreta che sono capaci di evocare e di rappresentare per milioni di persone, e che in nessun caso possono surrogare.
E invece è proprio a questo che abbiamo assistito finora: il maldestro e reiterato tentativo di surrogare con le parole l’inconsistenza della politica. Una campagna elettorale permanente, per giunta di scadente qualità. Un parossismo di gesti, pose e simboli sempre nuovi, privi di alcun legame con l’esperienza e per questo incapaci di comunicare alcunché, perché sempre importati da altrove. Un camaleontismo culturale infarcito di citazioni da cioccolatino e intermezzi strappalacrime buoni tutt’al più per catturare il voto delle dodicenni, che però non votano.
Si obietterà che questi sono dettagli, scelte di comunicazione, aspetti marginali che nulla dicono della sostanza. E invece dicono tutto quello che c’è da dire. Perché è in questa melassa che sta affondando il Partito democratico, in queste stucchevoli sabbie mobili in cui tutto si assomiglia e dunque tutto è consentito – persino, in Veneto, manifesti in cui si tuona contro Bossi e Berlusconi che “regalano a Roma i soldi del Nord”. Una zuccherosa palude in cui non c’è più alcuna differenza, come da anni sostiene la pubblicistica alla moda, tra destra e sinistra, tra riformisti e conservatori, tra Margaret Thatcher e Willy Brandt. Eppure il volto spaventoso di quel manifesto del Veneto, o di quello che lo ha preceduto qualche tempo fa contro i campi nomadi, è il frutto naturale di questa semina incessante, il retrogusto violento dello zucchero filato. Il leghismo-democratico al Nord, la tragica sceneggiata napoletana tra Bassolino, Iervolino e Nicolais al Sud. Il sonno della politica genera simili mostri. E genera reazioni di segno contrario, che al vuoto dell’innovazione per l’innovazione oppongono il pieno della conservazione.
Adesso però ci sono le elezioni, osservano i saggi. E le elezioni si sa già come andranno. Dopo l’ennesima sconfitta, si dice, allora sì che si potrà finalmente voltare pagina. Ma dopo l’ennesima sconfitta sarà a rischio la stessa sopravvivenza del partito. E allora, a maggior ragione, si dirà che bisogna restare uniti, scongiurare altre lacerazioni, e così si lascerà che la semina prosegua e dia nuovi frutti. Questo è il programma che abbiamo davanti. Se qualcuno ha qualcosa da dire, pertanto, dovrà dirla adesso. Oggi è già tardi. Domani sarà semplicemente inutile.