La metafisica della gioventù (beffata dal Pdl)

Se stiamo alla superficie delle cose, abbiamo un partito appena nato, il Popolo della Libertà, che ha celebrato il suo primo congresso e ha nominato all’unanimità un Presidente nella figura di un ultrasettantenne. Un leader che, come ha scritto sul Corriere della sera Ernesto Galli della Loggia, è “tutto immerso, biograficamente e culturalmente, nella prima Repubblica”. E cioè in una cosa che, almeno secondo la pubblicistica corrente, sarebbe morta quindici anni fa o poco più. Dall’altra parte abbiamo un partito, anch’esso di recente formazione, il Partito democratico, che però, a differenza del primo, non ha ancora risolto i suoi problemi con l’età: s’è dato da poche settimane un segretario se non proprio giovane almeno giovanile, ma è incalzato dall’opinione pubblica che chiede di svecchiare drasticamente l’intera classe dirigente e sembra quindi non potersi contentare, nella corsa al rinnovamento, di un leader che sia meno che biondo e bello e di gentile aspetto, per dirla col sommo poeta.
Ebbene, poiché il semplice raffronto dimostra ad oculos che il problema non è l’età, né anagrafica né politico-culturale, e poiché non è ancora risultato che le elezioni le vince chi è più giovane, non rimane che andare un po’ sotto la superficie, per trovare qualche ragione della persistenza funesta di una sorta di metafisica della gioventù nei cuori e nelle menti di militanti ed elettori del Pd.
Che si tratti di una metafisica, nel senso deteriore del termine, è largamente dimostrato dal fatto che non ha gran che bisogno, per sostenersi, di dati reali. Ha bisogno invece di rappresentarsi secondo un copione che va in scena da parecchi anni: da quando, grosso modo, i partiti del centrosinistra hanno perso la capacità di dare alla propria azione politica una legittimità tale da giustificare, in suo nome, l’esercizio democratico del potere.
Di quel copione la versione più celebre è stata scritta da Hans Christian Andersen, nella bella favola “I vestiti nuovi dell’imperatore”. È lì, infatti, che un bambino, colui che meglio può dar voce al candore dell’innocenza, trova il coraggio di dire quello che tutti non hanno il coraggio di dire, che cioè il re è nudo e che non indossa affatto gli splendidi abiti che due imbroglioni gli han fatto credere di avergli cucito addosso. Gioventù vorrebbe dunque dire innocenza, e cioè: non compromissione con il potere. Naturalmente, nel corso del Novecento la gioventù ha voluto dire anche altre cose. Dagli ardori futuristi agli spiritualismi di inizio secolo, dalla generazione ribelle ai sommovimenti sessantottini e post-sessantottini, esser giovani ha significato un valore, ma anche una forza. Nella versione quasi fiabesca che imprigiona il Pd, esser giovani vuol dire invece avere tutt’al più l’improntitudine del fanciullino, e fare affidamento solo su quella. Che è un po’ poco, in verità, per farci un partito, ma abbastanza perché tutte le volte in cui va in scena la parola supposta innocente del giovane di turno, i detentori del potere appaiano automaticamente vecchi, logori, superati, piegati nella difesa miope e gretta del loro privato tornaconto. Una casta, insomma. L’ultimo esempio lo ha offerto l’assemblea nazionale dei circoli del Pd. Quando Debora Serracchiani vi ha preso la parola, non contava che non fosse proprio giovanissima, essendo ormai prossima agli –anta, non contava neppure che fosse alla seconda consiliatura come consigliere provinciale, contava invece che apparisse, grazie al giovanile aspetto o forse alla frangetta, come il bambino della favola di Andersen. Ora, il punto non è quanto fossero fondati i rilievi di Debora, il punto è che per raccogliere l’entusiasmo della base dovevano provenire da una persona giovane, nuova, quindi innocente, la cui credibilità fosse attestata proprio e anzitutto dall’essere, esteticamente prima ancora che effettivamente, lontana mille miglia dal detenere un potere reale. In questo modo, il Pd confessa di essere ancora bloccato, in maniera allucinatoria, in questa sorta di Urszene, di scena primaria, dalla quale, per chissà quali e quanti sensi di colpa, da un quindicennio in qua non riesce evidentemente a liberarsi.
La psicanalisi insegna che la scena primaria è spesso e volentieri una sorta di copertura di una realtà che non può (perché non vuole) essere conosciuta, e che in quella scena è perciò schermata. Mentre però è difficile penetrare le profondità della psiche, non è difficile capire come stanno le cose nello spazio della politica, perché la realtà in questione, che non si vuol vedere, non è altro che la politica stessa, che è quella cosa per la quale le parole e le ragioni non stanno solo da una parte, quella buona (e giovane e innocente), mentre la forza e il potere stanno solo dall’altra, quella vecchia, brutta e cattiva; ma si incrociano, inestricabilmente.
E mentre il Pd non riesce a liberarsi della sua fanciullesca ossessione – ossessione che rende indecenti tutti i momenti in cui, per le necessità della politica, alla politica non si può rinunciare – dall’altra parte può salire liberamente sul palco un presidente che si fa beffe di tutte le antinomie che tengono bloccato il Pd: è un uomo anziano, ma che sa apparire giovane; proviene dalla Prima Repubblica, ma può incarnare il nuovo; sta infine sulla scena con indosso vesti mediatiche più sontuose di quelle dell’imperatore della favola, senza tuttavia perdere l’aria di chi riesce a dire di sé, col più ingenuo dei sorrisi, che lui, il re, è nudo. Ed è come tutti noi.