Un congresso di Amici

Non è un caso se il congresso del Pdl si è aperto in grande spolvero a soli tre giorni dalla finale di Amici. Anzi, fossimo di quelli che hanno ben presenti le priorità del paese, forse dovremmo dire che è stato Amici a chiudersi tre giorni prima del congresso del Pdl, anticipando – ancora una volta – tutto. Bastavano infatti soltanto pochi minuti della diretta dalla Fiera di Roma, venerdì, per capire che a tutto questo eravamo preparati da anni, senza neppure saperlo. Anni di giochi a premi, televoti e reality non sono passati invano; sono serviti a raffinare, per approssimazioni successive, l’organizzazione del nuovo partito.
Al primo congresso del Pdl, con lo stacchetto musicale tra un intervento e l’altro, la struttura narrativa era ormai talmente oliata, familiare e rassicurante, che ci siamo scoperti ad aspettare che qualcuno chiedesse di vedere “le carte” per sapere chi fosse in testa. Certo, il primo scoglio da affrontare non era da poco, perché uno dei primi a entrare in scena è stato proprio Silvio Berlusconi. E si sa che quando la classifica da casa genera un simile, increscioso incidente, bisogna intervenire subito, non sia mai che il prescelto si stanchi troppo, perda lo slancio e alla fine arrivi un La Russa qualsiasi a rubargli la scena e a vincere la sfida. E’ per casi come questi, com’è noto, che è stato inventato un escamotage risolutivo: il cavallo di battaglia. Ogni concorrente ne ha uno. E’ la performance che durante l’anno ha ripetuto più volte, quella che preferisce, quella che gli riesce meglio, quella che fa anche a occhi chiusi saltellando su un piede. E’ rodata fino allo sfinimento e – va da sé – fa venire giù il teatro. E così è venuta giù la Fiera di Roma, quando Silvio Berlusconi ha sfoderato il meglio del suo repertorio: sinistra comunista, statalista e giustizialista in tutte le tonalità, cattocomunismi in assolo lunghissimi, un governo instancabile che si è prodotto in tutte “le prese di Steve”. Alla fine, naturalmente, gli applausi scrosciavano a più non posso, e perfino i professori lo guardavano con gli occhi gonfi d’orgoglio, illudendosi di avere contribuito al capolavoro.
Ma il regolamento di Chicco Sfondrini parla chiaro: non si vince per acclamazione, per carità, si vince solo dopo che tutti hanno gareggiato (e perso). E così è venuto il turno degli altri, che naturalmente non hanno voluto sfigurare, anche solo per poter dire alla fine: “Grazie Maria, è stata un’esperienza bellissima”. Perché Maria De Filippi ce lo ha insegnato: un discorso di incoraggiamento non si nega a nessuno – soprattutto nel nuovo partito, in cui c’è un posto per tutti e in cui “ciascuno potrà trovare gloria”, come ha detto Berlusconi domenica – prima che si decretino il vincitore morale e quello del televoto. Anche per l’immancabile Brunetta di ogni edizione, il concorrente – per intenderci – che non si può dire sia un fenomeno, però si impegna tanto.
Tutto come previsto, dunque, in un susseguirsi di concorrenti minori: la ragazza grassa che si ostina a ballare, la soubrettina figa ma tecnicamente scarsa, l’attore snob che sa fare tutto ma non eccelle in niente, l’antipatico per vocazione insopprimibile, l’antipatico per scelta consapevole, il polemista che prende i voti solo perché è odiato da tutti. E infine, naturalmente, lo sfidante per antonomasia: gran tecnica e poco cuore. Talento cristallino, sa cantare, ballare ed eccelle perfino nella coreografia della Celentano, ma il suo destino è segnato, e ne è perfettamente consapevole: al massimo avrà un posto tra i ballerini fissi del cast. In fondo, voglio dire, se hanno preso Ambeta, perché non dovrebbero prendere Gianfranco Fini? Se l’è giocata bene, si è inventato anche il flirt più chiacchierato dell’anno (prova che aveva studiato, e il suo modello di riferimento non poteva che essere Leon). E infatti la sua bionda promessa era lì seduta in platea, a dirgli con quello sguardo fiducioso e rassicurante che crede in lui, che lei sa che può farcela, certo che può, hanno provato la coreografia insieme milioni di volte. Ma neppure questo servirà. Il predestinato è l’altro, e non solo perché il copione l’ha scritto lui, o comunque ne ha comprato i diritti. Il fatto è che Silvio Berlusconi ha seguito e introiettato il dibattito etico-politico più impervio che l’Italia abbia affrontato negli ultimi anni, uno scontro che ha mietuto più vittime del dibattito sul testamento biologico. L’annosa controversia che ha irrimediabilmente diviso il paese: se un ballerino possa definirsi tale nonostante l’imperfezione del “collo del piede”. Puristi del classico contro spontaneisti dell’hip hop.
Ma proprio la battaglia che ha visto il partito di chi “la tecnica prima di tutto” contrapporsi a quello del “poco talento ma grande cuore”, a pensarci bene, avrebbe dovuto illuminarci. Perché allo snobismo di quelli che contano il tempo con il piedino guardando con disgusto la simpatica semplicità degli assolo di Garrison, con l’andare del tempo, si è contrapposto lo spirito egualitario del pubblico da casa che, televoto dopo televoto, mandava avanti sempre i più vessati dalla critica, i più tormentati dai professori, ma che ci mettevano tanta volontà e impegno. Un dualismo talmente inconciliabile e cruento che ha tenuto banco per intere edizioni, annullando qualsiasi altra considerazione tecnico-tattica sulle performance, azzerando qualsiasi altro tipo di valutazione di merito e di metodo, diventando di fatto l’unico tema di dibattito su cui il pubblico veniva chiamato a rispondere. Incancrenendosi a tal punto che ormai chiunque abbia una faccia da schiaffi e si conquisti il disprezzo – prima ancora che le critiche – della Celentano, ha praticamente la finale assicurata, e se poi sappia ballare almeno una rumba è un dettaglio del tutto insignificante. Potrà non piacere, ma è così che funziona, e bisogna saperlo. Perché in una sfida tra Rino Gattuso e Michel Platini, ad Amici vincerà sempre e comunque Gattuso.