L’eredità incontesa

Nelle ultime settimane si è ricominciato a parlare molto di Chiesa e politica, dottrina sociale e crisi economica, tramonto della socialdemocrazia e ruolo dei cattolici nello spazio pubblico. Lo si è fatto in modi diversi, per vari scopi e con risultati diseguali. E lo si è fatto anche su questo sito, a partire da un articolo di Chiara Geloni sul ruolo dei popolari all’interno del Partito democratico e dalla replica di Pierluigi Castagnetti, seguiti dall’intervento di Claudio Sardo, che ha suscitato a sua volta un’impegnativa replica di Stefano Ceccanti (con controreplica di Sardo) sul sito internet dell’associazione Libertà eguale. Piuttosto che tentare di rispondere a ciascuno, mi pare dunque più utile proseguire sulla traccia di Sardo, per allargare ancora un po’ il campo della discussione e aggiungere semmai qualche domanda, nella convinzione che il dibattito su questi temi, anche dentro il Pd, non soffra tanto di una mancanza di risposte, quanto, per l’appunto, di una drammatica carenza di domande.
Lasciando da parte le parole dell’attore Fabrizio Gifuni o il tema delle influenze massoniche nel forlivese, che hanno animato il dibattito sui giornali delle ultime settimane, si potrebbe partire dagli interventi di Ernst-Wolfgang Böckenförde sulla stampa tedesca, recentementi ripresi in un bel libricino della Morcelliana, Chiesa e capitalismo, insieme con un ampio contributo di Giovanni Bazoli; dal recentissimo Una alternativa alla laicità pubblicato da Luca Diotallevi per Rubbettino; o ancora dall’ampia sezione dal titolo “Un’Europa cristiana?” nell’ultimo numero di Italianieuropei.
Cercare di portare a questa altezza il dibattito interno al Partito democratico, sia chiaro, non è un modo furbesco di eludere la concretezza dei problemi politici più stringenti che alcuni dei suoi dirigenti, a cominciare da Castagnetti, hanno posto e continuano a porre in questi giorni, ad esempio nell’ultima polemica sul futuro della socialdemocrazia e sull’adesione/non adesione del Pd al Partito del socialismo europeo. Mi domando però se in questa come nelle altre polemiche sopra ricordate non siano proprio i cattolici del Pd a correre con troppa leggerezza il rischio, questo sì esiziale, di abbassare tali problemi al livello di una contesa interna legata a pure esigenze di collocazione personale, o anche, bene che vada, di posizionamento politico di gruppo. E qui, naturalmente, non mi riferisco a Castagnetti, se non per metterlo amichevolmente in guardia dalle conseguenze inintenzionali di alcune sue recenti prese di posizione. E per segnalare, soprattutto, quanto insidiose possano essere “le ambiguità e le trappole dei discorsi valoriali” cui accenna Emma Fattorini nel suo intervento su Italianieuropei (e come peraltro ho già cercato di segnalare qui a proposito di un’altra assurda polemica di questi giorni, quella sul simbolo del Pd).
Dinanzi a tante discussioni e rivendicazioni attorno alle diverse e ancora non elaborate “tradizioni” del Partito democratico, colpisce però soprattutto il paradosso di una grande eredità rimossa, e apparentemente incontesa. Quella del pensiero e dell’esperienza di tanta parte della Democrazia cristiana, sia sul terreno della concezione dello stato sia su quello più specifico dei concreti meccanismi elettorali e istituzionali, oltre che sul terreno economico-sociale. E più in generale sul terreno della democrazia, sul ruolo dei partiti e dei corpi intermedi. E infine, in questo ambito, sullo stesso valore della persona. Una storia, un’esperienza e un pensiero della cui attualità non mancano certo i segni, in questi tempi agitati. Mi riferisco alle già citate riflessioni sulla crisi economica come conseguenza non semplicemente di una carenza di regole, e nemmeno dell’avidità o dell’assenza di scrupoli o della scarsa etica degli attori economici, ma come conseguenza ultima di un’intera filosofia – e persino, non ho personalmente alcun problema a riconoscerlo, un’antropologia – che approda a quell’idea di “uomo funzionale” che è la negazione stessa delle concezioni di persona, senso del limite e bene comune proprie del pensiero cristiano. Capisco che le riflessioni di Böckenförde possano apparire giornalisticamente meno seducenti delle ricorrenti dichiarazioni di Beppe Fioroni sulla crisi della socialdemocrazia europea. E tuttavia dovrà pur dire qualcosa ai cattolici democratici il fatto che sia Böckenförde, e non da oggi, a riproporre la necessità di “un potere statale capace di azione e decisione, che vada oltre la semplice funzione di garanzia dello sviluppo del sistema economico e di una certificazione delle forze in campo, ma piuttosto salvaguardi con efficacia la responsabilità del bene comune cercando di circoscrivere, orientare e pure contrastare l’aspirazione al potere economico”. E che Böckenförde lo faccia, per giunta, tra una citazione dal Capitale e l’altra dal Manifesto del partito comunista, poste tranquillamente accanto a Tommaso D’Aquino e Giovanni Paolo II.
Che senso ha dunque riproporre oggi la polemica sulla socialdemocrazia nei termini frusti di una duplice equazione: “cattolici = moderati” / “socialdemocratici = vecchia sinistra ideologica, classista e statalista, se non proprio estremista”? Un’identificazione e una contrapposizione per entrambi deprimenti, ma soprattutto infondate. Per averne la conferma, a contrario, basterebbe leggere le parole di tanti esponenti del Pd, di tutte le provenienze e di tutte le mozioni, a proposito della vicenda di Pomigliano. Parole che in alcuni casi hanno raggiunto un livello di compiacimento che sarebbe stato respinto come inopportuno persino dagli uffici stampa della Fiat. Altro che deriva socialdemocratica. Nei casi più nobili, semmai, la si potrebbe definire subalternità a un pensiero liberale che in questi anni ha dominato il dibattito pubblico.
Il problema del Partito democratico, che spiega la sua incapacità di affrontare tanto la crisi del liberismo quanto il problema della laicità e del rapporto con la fede, e con la Chiesa, sta tutto qui. Nell’idea di un Partito democratico “all’americana”, annunciato come “completamente nuovo”, che non riconosceva cioè altra tradizione storica e di pensiero cui ancorarsi che non fosse il liberalismo di matrice anglosassone. E che aspirava a essere, per usare le parole di Walter Veltroni, quel “partito azionista di massa” che l’Italia non aveva mai avuto.
Ma oggi, dinanzi alla debolezza delle risposte venute sin qui dal Pd nel confronto con le sfide poste alla politica e alla società italiane da vicende come quella di Pomigliano, come il pretestuoso attacco del governo all’articolo 41 della Costituzione o come la linea di politica economica assunta anche all’ultimo G8 (si veda qui l’articolo di Ronny Mazzocchi), non è forse venuta l’ora di ripensare radicalmente proprio l’impostazione che al Partito democratico è stata data al suo atto di nascita, con un autentico colpo di mano ideologico rispetto alla lunga e faticosa elaborazione che aveva portato all’unificazione di Ds e Margherita? E non dovrebbero essere proprio i cattolici, dinanzi all’accusa che si muove adesso a Pier Luigi Bersani di volere “snaturare” il progetto del Pd, a rispondere che il vero “snaturamento”, semmai, è stato compiuto allora? Ma il fatto è che allora, e forse questo è davvero il punto della questione, i cattolici del Pd non dissero nulla. E in verità nemmeno dopo.
Qui però bisognerebbe aprire un altro discorso, che ci porterebbe troppo lontano. Mi limito quindi, di nuovo, a una domanda: siamo sicuri che non si nasconda nessuna pagliuzza negli occhi di quei cattolici democratici che in questi anni non hanno esitato ad accusare la Chiesa, con parole più o meno velate, per il compromesso accettato con la destra e con il potere politico in generale? Se guardiamo a tutta la prima stagione del Pd veltroniano, siamo sicuri che la favola non parli un po’ anche di loro? Tenendo a mente il ruolo dei cattolici allora ai vertici del Partito democratico e l’impianto politico-ideologico su cui il partito fu edificato, mi domando insomma se non vi fu anche lì, tra gli eredi della Dc e i fautori del “partito azionista di massa”, una sorta di scambio ineguale: sostegno politico a un progetto radicalmente estraneo ai propri principi in cambio della tutela di alcuni interessi e di qualche compensazione sul terreno simbolico, spesso anche eccessiva.
La risposta è meno scontata di quanto potrebbe apparire a prima vista. A farla troppo facile, me ne rendo conto, si finirebbe col dare ragione proprio a coloro che si vorrebbero criticare, e cioè a quei cattolici sempre meno convinti non tanto della linea adottata dall’attuale segretario, quanto della stessa utilità del Partito democratico in sé e per sé. Certo è che di fronte alla confusione delle idee e delle coscienze che caratterizza la politica italiana di oggi, a cominciare dalla coscienza di sé di una sinistra per molti versi ancora smarrita nelle nebbie ideologiche dei “ruggenti anni Novanta” a egemonia liberista, verrebbe proprio voglia di invocare, provocatoriamente, qui sì, la luce di un pensiero, e di un’esperienza, autenticamente cristiani.