Giovani turchi, vecchi problemi

La personalizzazione del confronto tra Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani sta producendo nel Pd una semplificazione della dialettica interna. Da un lato, al netto dell’istanza un po’ trasversale di rinnovamento generazionale, Renzi raccoglie l’appoggio delle componenti più critiche verso la linea seguita dal partito sotto la guida dell’attuale segretario. Mi riferisco in particolare al sostegno più o meno esplicito da parte dell’area liberale del partito, che non si riconosce nella linea di politica economica perseguita da Bersani (e dal suo responsabile economico Stefano Fassina) e con Renzi condivide l’ostilità verso la concertazione, l’enfasi su una visione meritocratica dei rapporti sociali, il richiamo a un modello di politica (e di comunicazione politica) ispirata al modello americano.

Dall’altro lato, Bersani è appoggiato da chi rappresenta le due principali tradizioni politiche che sono confluite nel Partito democratico, quella popolare e quella, in parte di derivazione postcomunista, che si riconosce nella socialdemocrazia europea. Tuttavia, mentre quest’ultima ha goduto di una crescente visibilità, sia per la provenienza del segretario che per il richiamo esercitato delle iniziative promosse dai cosiddetti “giovani turchi”, l’area che più direttamente si richiama alla tradizione cattolico-democratica sembra in affanno. Non è in discussione il sostegno a Bersani, grande è la distanza di contenuti e di stile dal sindaco di Firenze, che pure è cattolico e ha avuto nei popolari il suo battesimo politico, ma c’è la sensazione che i cattolici democratici del Pd possano restare schiacciati dal confronto in atto.

Intendiamoci: il fatto che, questa volta ancora più che in passato, la linea di divisione non passi dalla distinzione tra cattolici e laici è molto positivo. Che questa storica contrapposizione lasci il posto al confronto sulla politica economica e l’idea di società segna un passo avanti importante. Si vede che qualcosa è successo in questi anni, l’amalgama è in qualche modo riuscito. E tuttavia, resta da chiedersi quali possano essere gli effetti di una perdita di visibilità della tradizione del cattolicesimo democratico nel Pd. Non c’è il rischio che il Partito democratico possa soffrire di una polarizzazione tra un’istanza più liberale da un lato e una riconducibile ai temi tradizionali della sinistra dall’altro? Non si corre il pericolo che, privo di riferimenti e respinto da un linguaggio estraneo, quell’elettorato cattolico possa non riconoscersi più nel progetto? Credo che questo rischio ci sia. Fortunatamente, c’è anche il modo di disinnescarlo.

Non essendo mai stato, da cattolico, un sostenitore della necessità di una presenza politica organizzata dei cattolici “in quanto cattolici”, sono portato a vedere la soluzione sul piano dell’elaborazione culturale e soprattutto del rinnovamento del linguaggio. Niente di nuovo: si tratta di riprendere e accelerare un processo in parte già avviato, che aveva suscitato interesse, ma che gli eventi e le urgenze degli ultimi mesi hanno finito per far passare in secondo piano. Mi riferisco alla ricerca di un raccordo fecondo tra la tradizione socialdemocratica e quella del cattolicesimo sociale e politico, finalizzato ad archiviare la lunga fase di egemonia del pensiero liberista e l’espressione politica di questa: la Seconda Repubblica.

Proprio l’apporto di un certo cattolicesimo democratico, con la solida cultura parlamentarista, la visione pluralista del corpo sociale, l’idea di persona irriducibile ai rapporti economici, potrebbe consentire l’emergere di una sinistra più adeguata al Paese di quanto non sia ad esempio un mero richiamo al socialismo europeo, che da noi rischia di suonare fuori contesto. E non è questa una possibile interpretazione del progetto originario del Pd, forse anche un poco più alta e appassionante dell’idea del “partito fondato sulle primarie”?

È tuttavia necessario superare una duplice difficoltà. Per gli uni, occorre lasciarsi alle spalle certi pregiudizi e il timore che il recupero di un radicamento sociale e di istanze identitarie (o magari l’invito ad un raccordo più stretto con le altre forze progressiste europee) abbia l’obiettivo di alimentare divisioni e tornare indietro rispetto all’idea fondativa del Partito democratico. Per gli altri, occorre resistere alla tentazione di percorrere la via, apparentemente facile ma di corto respiro, della chiamata a raccolta del popolo disperso della sinistra attorno a parole d’ordine che potrebbero giustificare quei timori e pregiudizi.

Le condizioni per riprendere l’iniziativa ci sono, l’urgenza anche.