Il merito del più forte

Il giorno dopo l’annuncio delle dimissioni di Mario Monti, sul Corriere della sera compare l’ennesimo articolo di fondo, questa volta a firma di Roger Abravanel, che ci ricorda con le sue argomentazioni un fronte della sfida aperta dal Pd per una sinistra riformista che voglia proseguire il suo cammino di emancipazione dal pensiero delle destre. È proprio nel mantra del merito e della meritocrazia declamato in questo caso da Abravanel, infatti, che troviamo uno dei campi di questa battaglia politica e culturale. La questione del merito, agitata come un’arma minacciosa, sia dentro che fuori il perimetro della sinistra, è stata forse in questi anni una delle maggiori sconfitte culturali dei progressisti.

Il merito e la sua declinazione sociale, la meritocrazia, sono stati il grimaldello con cui il neoliberismo ha attaccato e disarmato il cuore della politica della sinistra sia social-cristiana che social-democratica europea: l’uguaglianza e di conseguenza gli strumenti con cui perseguirla. Se era difficile elevare la disuguaglianza a valore per la costruzione di una società più giusta e dunque minare le politiche tese a ridurla, proprio perché della riduzione delle diseguaglianze si erano caricate nella loro stessa identità le forze dei progressisti che vinsero la battaglia della costruzione del welfare state nel secolo scorso, allora serviva un paravento ideologico dietro cui nascondere la vergogna dell’ingiustizia sociale.

Ecco dunque avanzare il merito come strada per il superamento di inefficienze e sprechi dovuti all’intervento pubblico. Ecco la meritocrazia presentarsi come la strada con cui sterilizzare il contrasto degli interessi nella società, trasformando il conflitto sociale nella gara dei meritevoli. Così, poco alla volta, la sinistra si è trovata nell’angolo, accusata di un egualitarismo che pure, di fatto, non le apparteneva. Tutti gli strumenti pensati per ridurre il divario tra deboli e forti sono diventati qualcosa di sporco e di ignobile, dipinti come un freno alla libera espressione del merito.

Anche le forme di partecipazione organizzata alla vita pubblica, partiti e sindacati, sono state presentate come fattori di inefficienza e corporativismo. Poco importa se alla prova dei fatti il merito abbia coinciso con la condizione economica della famiglia di provenienza. Proprio nei paesi indicati a modello dagli ideologi della meritocrazia, Stati Uniti e Regno Unito, scopriamo oggi che l’ascensore sociale è più fermo, mentre al contrario dove troviamo maggiore mobilità sociale è più forte l’intervento pubblico e il welfare, come nei paesi scandinavi e nell’Europa continentale.

Nel nostro Paese, afflitto contemporaneamente dalle politiche neoliberiste e da un corporativismo dalle radici antiche, abbiamo visto i call center riempirsi di laureati, mentre i concorrenti dei reality show per una serata in discoteca erano retribuiti dieci volte lo stipendio mensile di uno di quei preparatissimi precari. Alla fine di questi trenta anni di pensiero unico dovrebbe essere chiaro che non esiste un merito oggettivo: se si lascia senza difesa il punto di vista del più debole, prevale quello del più forte.

Una sinistra in grado di tornare a guardare avanti dovrebbe ripartire dalla Costituzione, che recita all’articolo 3, secondo comma: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Nel proseguire l’opera che deve consolidare l’enorme capitale democratico prodotto dalle primarie (operazione necessaria pena la sua volatilizzazione, come abbiamo già visto in passato), al Pd sarà essenziale riflettere sulla Costituzione, il frutto più maturo delle culture da cui è nato. Ben più utile della stanca religione del merito, che alla prova dei fatti non ha promosso i più meritevoli, ma i più forti.

Questa battaglia, come quella sulla questione meridionale e sulle riforme istituzionali, va combattuta con lo sguardo rivolto in avanti, senza subalternità agli ultimi decenni e con le radici piantate nella società, ritrovando il coraggio della verità. Perché la ragione dell’esistenza delle forze progressiste è l’idea che partendo dal punto di vista dei più deboli si costruisce una società migliore per tutti: più efficiente e più giusta.