La targa di Shanghai

Cara Left Wing,
la storia di questa settimana parla di targhe e contraccettivi di varia natura. E rivoluzioni. Non ricordo se ti ho raccontato del traffico di Shanghai. Diciamo che parlando di un’area urbana che fa ventiquattro milioni di abitanti, te lo puoi immaginare. In realtà no, non puoi. E’ solo quando ti ci trovi dentro, nel flusso lavico della Yan’an alle cinque del pomeriggio o in uno dei quattro livelli di scorrimento veloce (si fa per dire) sopraelevati che ti rendi conto che l’immaginazione ha un limite, e quando l’hai oltrepassato sei nella realtà del traffico di una megalopoli dove il numero di licenza assegnato ai tassisti è a sei cifre (ti ricordi quante sono a Milano e Roma? Te lo dico io: quattro. Fai tu).

Non saprei da dove iniziare per descrivertelo, dal contromano come regola di vita o dal clacson che sostituisce le frecce nell’infinito slalom dalla prima alla terza o quarta corsia, o magari dai tassisti killer per droga o per sonno (il secondo è capitato a me, il primo a una collega che si è messa a gridare quando ha capito che l’uomo alla guida si divertiva a mirare i passanti, che qui non sono proprio merce rara). In tutto questo, e nonostante una metropolitana che venerdì scorso ha portato ottomilioniduecentoquarantaseimila persone in diciotto ore di servizio (che è più di Campania e Calabria messe insieme, per darti un’idea), la gente qui insiste a comprare macchine: sembra una cosa insensata, un’incomprensibile ricerca del suicidio, eppure.

Le autorità governative cercano di metterci una pezza, e la soluzione che hanno trovato è a suo modo geniale. Ogni mese organizzano un’asta, mettendo in palio un piccolo ma fondamentale oggetto: la targa. A gennaio erano novemila, e all’asta hanno partecipato in trentaseimila e rotti; risultato: il valore di una targa è arrivato a 86.000 renminbi, che al cambio attuale fanno poco più di 11.000 euro, in una città dove il pil pro-capite (che di suo, come si sa, è una cosa tipo i polli di Trilussa, ma glissiamo) arriva a 85.000. Quindi: tu compri la macchina e spendi una certa cifra, poi partecipi all’asta e se ti va bene ne spendi un’altra, se ti va male tieni la macchina parcheggiata da qualche parte in attesa di maggior fortuna.

Se ci pensi, è l’adattamento a quattro cilindri delle politiche di controllo della popolazione per le quali questo paese è famoso nel mondo: un figlio a coppia e non di più, se la coppia è fatta da due figli unici allora è consentito fare il secondo, se non hai i requisiti ma hai i soldi puoi assecondare la tua fertilità, purché paghi una cifra che va nelle casse dello stato a mo’ di indennizzo. Qui i figli e lì le macchine, ma lo schema è lo stesso – lo stato contraccettivo, che lotta contro la sua stessa crescita, e che quando non ce la fa batte cassa. La gente non è contenta, né del controllo demografico né di quello della circolazione. “Una targa ormai, considerato che le norme future impediranno di rivenderla per almeno tre anni per evitare speculazioni, è un investimento immobiliare”, si lamentava una frustrata proprietaria di auto sullo Shanghai Daily. Eppure accettano, abbozzano, cercando intanto una soluzione per aggirare l’ostacolo.

Qualche giorno fa ero con una persona, un italiano; stavo in taxi, su una delle sopraelevate, parlavamo delle elezioni e lui ha detto una di quelle frasi fatte e non per questo meno vere: “Io davvero non capisco come sia possibile che noi italiani non facciamo la rivoluzione”. Poi abbiamo divagato, abbiamo parlato del tempo e dell’inquinamento, e alla fine – non ricordo come – siamo finiti sulla faccenda delle targhe, ne abbiamo riso scuotendo la testa, poi in un attimo di silenzio lui ha detto, guardando fisso davanti a sé: “Ecco per cosa faremmo la rivoluzione, avere la macchina e non poterla usare”.

Caro Pilu, va bene che scrive dalla Cina e magari qualche cosa del dibattito italiano potrà anche sfuggirle, ma insomma, anche lei, che credevamo persona moderata e con la testa sulle spalle, responsabile ma mai conformista, adesso si mette a parlare con questa leggerezza di rivoluzioni? Ma dove crede di stare, all’ambasciata americana?