Il partito della Bce

Due anni fa, il 5 Agosto 2011, la Banca centrale europea inviò una lettera al governo italiano a firma Jean-Claude Trichet e Mario Draghi (allora, rispettivamente, governatore uscente e successore designato), intimando al nostro paese di applicare al più presto misure durissime. Sono passati appena ventiquattro mesi, ma a voltarsi indietro si riconosce a stento l’Italia di allora: Silvio Berlusconi era ancora al governo, Mario Monti ancora alla Bocconi, mentre Beppe Grillo si interrogava sulla possibilità di raggiungere un risultato a doppia cifra nelle elezioni che apparivano ormai imminenti, e a giudizio di molti inesorabilmente destinate a incoronare Pier Luigi Bersani presidente del Consiglio.

Due anni dopo il panorama è cambiato parecchio: la crisi economica e sociale del paese si è aggravata, il centrosinistra si è sgretolato prima elettoralmente e poi politicamente, nei giorni dell’elezione del presidente della Repubblica, mentre il Pdl è stato sciolto con un videomessaggio dal suo fondatore nel giorno della sua condanna definitiva per frode fiscale.

Sarebbe eccessivo attribuire esclusivamente a quella lettera la responsabilità di quanto accaduto in questi due anni. Il terremoto che ha sconvolto il sistema politico italiano ha avuto, evidentemente, ragioni endogene. Ma certo in quel frangente molto si è giocato e molto, quasi tutto, la sinistra ha perso, senza nemmeno rendersene conto. Lo ha fatto rinunciando a mettere in discussione l’assunto su cu si è fondata la strategia della destra europea in questi anni, cioè l’idea della neutralità delle soluzioni imposte da Bruxelles.

Quante volte in questi anni ci siamo trovati a invocare un’Europa politica come risposta alla crisi, senza vedere che un’Europa politica c’era già, solo che aveva il segno della destra. Una destra abile e cinica, capace di convincere tutti che le sue ricette non fossero un’opzione tra le altre, ma l’unica possibile, rivestendole con l’aura sacrale del sigillo tecnico.

La negazione di ogni alternativa si spinse fino al grottesco proprio quando il contenuto di quella lettera fu reso pubblico, e molti tra i principali leader del Partito democratico che oggi tuonano contro le politiche europee invitarono a fare di quel testo “il programma del Pd”. Corollario inevitabile di questo atteggiamento fu il richiamo a un indefinito senso di responsabilità che obbligava a proseguire in eterno su una strada senza uscita, a considerare la democrazia un lusso e l’impopolarità il primo sintomo del “buon governo”.

La sinistra, dopo aver rinunciato al governo dell’economia e della finanza, rinunciava così all’idea stessa di un cambiamento possibile, accettando un commissariamento di fatto. Ma in tal modo diventava terribilmente simile alla caricatura che ne faceva Grillo: se le soluzioni sono già scritte e devono essere soltanto messe in atto dai governi, che essi siano presieduti da Berlusconi, Monti o Enrico Letta, che senso ha perdere tempo a scegliere? Se al Tesoro, ormai il più politico tra i ministeri, siederà sempre un tecnico, comunque vadano le elezioni, come si può sperare ancora in un minimo di discontinuità?

E’ nella rinuncia a osare strade nuove la ragione più profonda del nostro fallimento. Draghi e Trichet ottennero quello che chiedevano, in un coro di elogi pressoché unanime. Il poco che manca, come la privatizzazione di quelle quattro o cinque aziende pubbliche che ancora garantiscono l’autonomia del paese sullo scenario internazionale, rischia di entrare adesso nell’agenda del governo Letta. E tutto ciò nonostante l’evidente fallimento della ricetta prescritta dalla Bce. Per averne la dimostrazione non c’è nemmeno bisogno di affaticarsi a volgere lo sguardo al di là del mare, verso la Grecia messa in ginocchio da quelle stesse politiche. Basta guardare a qualunque indicatore economico del nostro paese.

Non era difficile prevederlo, eppure non furono in tanti, allora, i facili profeti che osarono mettere in discussione la linea dettata da Francoforte. Fin da quell’indimenticabile 5 agosto, la nostra è stata una battaglia spesso solitaria, che ci è valsa l’accusa di estremismo, passatismo e addirittura di dogmatismo (quando la nostra unica colpa consisteva proprio nell’avere messo in discussione i dogmi dell’ortodossia tedesca). Ci consola vedere come oggi quelle posizioni siano diventate patrimonio comune di un fronte molto più ampio, almeno a parole.

Oggi che la legislatura è a punto di svolta e il Partito democratico sta per avviare una fase congressuale decisiva, riflettere su quello che è accaduto negli ultimi due anni è indispensabile. Perché questo è il nodo che il Pd deve sciogliere: continuare a subire per “responsabilità” le scelte della destra europea o essere fino in fondo il partito intorno a cui si costruisce un progetto alternativo. Quello di dare una via d’uscita a una strada che non ne ha.

Non sarà facile. In molti vorrebbero consolidare un assetto di potere funzionale al mantenimento di rendite di posizione oligarchiche e corporative. Fuori dal Pd – e speriamo solo fuori dal Pd – c’è chi immagina che con l’allungarsi della legislatura, e con la progressiva e inevitabile uscita di scena di Berlusconi, il nucleo forte del governo Letta possa trasformarsi nell’embrione di un nuovo soggetto politico, in nome di un europeismo egoista e tecnocratico. Un’operazione insidiosa perché rischia di trovare un’inconsapevole sponda nell’insofferenza che il sostegno alle larghe intese suscita in una parte del popolo della sinistra, alimentando la suggestione di un ritorno al passato, a un soggetto politico diverso da quel Partito democratico con così tanta fatica costruito in questi anni.

L’ambiguità nelle scelte di fondo, la difficoltà di ricostruire e difendere un punto di vista autonomo che contesti radicalmente il paradigma economico e politico dominante rischia di aprire la strada a questo disegno. L’effetto sarebbe la scomposizione del sistema politico e la spaccatura del Pd. Nel momento più difficile, l’Italia resterebbe così priva di quel soggetto riformista che, pur con tutti i suoi limiti, è l’unica speranza di un’uscita a sinistra dalla crisi.

Tutto lascia pensare che il momento delle scelte si stia avvicinando a grandi passi. Sta dunque al governo Letta dimostrare, con i fatti, da che parte starà quando le decisioni fondamentali non saranno più rinviabili e occorrerà dare battaglia, in Italia e in Europa, per uscire dalla spirale tagli-recessione, tasse-recessione, privatizzazioni-recessione. Il sostegno del Pd al governo dipende dalla sua volontà di dare fino in fondo questa battaglia. E di darla dalla parte giusta. Perché il Partito democratico, non foss’altro che per il nome che porta, tutto può permettersi di diventare meno che il partito delle oligarchie.

Foto di Lou