Il femminicidio e la pila di Volta

Nei giorni scorsi il Parlamento ha approvato in via definitiva il decreto n. 93 detto anche decreto contro il femminicidio. Ha avuto un percorso molto travagliato e complesso. È stato modificato fortemente nelle commissioni, e questo è stato un bene, perché è stato modificato in meglio. Però non posso far finta di niente, non possiamo fingere di non aver visto in aula e fuori discussioni sul merito, sui primi cinque articoli, che sono sembrate spesso quantomeno pretestuose.

Parlando, discutendo e leggendo non ho potuto fare a meno di ricordare le parole di Bruno Trentin quando metteva in guardia la sinistra e i sindacati dalla deriva massimalista. Insomma, è mai possibile che anche quando viene fatto qualcosa di buono, qualcosa che il nostro paese aspettava da anni, il commento più diffuso, anche da parte di chi ha contribuito a modificare quella legge, sia: si poteva fare di più? È ovvio che si sarebbe potuto fare di più, si può sempre fare di più, probabilmente anche quando Volta ha costruito la prima pila ha pensato: “Potevo farla meglio”.

Ridurre la discussione alle motivazioni culturali, al fatto che vada modificata la cultura, è affascinante quanto inutile. Sappiamo che l’uomo è un animale culturale, che tutte le sue azioni, le sue creazioni, i suoi traguardi e le sue catastrofi sono di tipo culturale. Quindi? Come si modifica la cultura? Attraverso le prassi e gli uomini, attraverso la lingua e il pensiero. Il parlamento ha sicuramente un ruolo culturale, ma la sua funzione è quella legislativa. Quindi davanti a un problema, dopo averne discusso, analizzato le fasi, messo a punto le possibili soluzioni, deve legiferare.

Le istituzioni intervengono sui comportamenti attraverso le regole e le sanzioni. E così, modificando i comportamenti, influenzano anche la cultura. Ringraziando chi ha fatto battaglie civili e culturali che hanno permesso di mettere a fuoco il problema, ascoltando tutte le voci e poi decidendo. Se una volta raggiunto il primo risultato si vede che presenta ancora delle lacune, si tornerà a modificarlo, si migliorerà. Altrimenti possiamo anche rinunciare, passare le nostre giornate a commentare blog o a discutere sui giornali, lavarcene le mani e dire che il problema è più a monte e nulla possiamo. La discussione sull’“autodeterminazione della donna” che sarebbe violata dall’irrevocabilità della querela assomigliava a tutto questo. Dovevamo dare uno strumento al giudice, uno strumento che permettesse di procedere alle indagini e alle sanzioni una volta che fosse emerso il dubbio della violenza.

Prendo l’esempio di una storia qualunque: donna maltrattata assieme al figlio, il medico denuncia le possibili violenze alle autorità. Queste contattano la famiglia e convincono la donna a denunciare. Dopo qualche settimana, tra minacce e percosse, la donna ritira la denuncia e il marito denuncia il medico per diffamazione. Qualche tempo dopo un trafiletto sul giornale: la donna era stata picchiata in modo selvaggio, ma non si era potuto fare niente, in compenso la denuncia al medico andava avanti regolarmente.

L’irrevocabilità della querela per stalking risolverà tutto questo? Sicuramente no. Però darà uno strumento in più. Scegliere di non scegliere, non partecipare al voto, il brontolio diffuso sui giornali è l’ignavia che ha portato gli italiani a credere, spesso a ragione, che alla fine la politica e le istituzioni non cambieranno mai niente. Per questo era importante approvare questa norma. Per questo sono orgogliosa di aver votato questa legge e di aver contribuito a modificarla. Abbiamo preso delle decisioni. Forse avremmo potuto sederci comodamente nel nostro divano e dire: “Si poteva fare di più, prima o poi qualcuno dovrà inventare questa dannatissima pila”.

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Giuditta Pini è parlamentare del Partito democratico