La maledizione degli anni novanta

Anticipiamo l’editoriale che aprirà il nuovo numero di Left Wing, dedicato al mercato, che sarà in libreria nei prossimi giorni.

Denunciare il fallimento delle politiche di austerità adottate in Europa è diventato oggi persino banale. Ancora meno originale sarebbe osservare, seguendo la mappa pubblicata recentemente da Le Monde, che laddove il conflitto politico destra-sinistra è stato sospeso in nome del risanamento dei conti pubblici – e specialmente dove questa sospensione è avvenuta o è stata percepita come una imposizione esterna – il risentimento diffuso nella società ha preso la strada del populismo. In Grecia, la terapia dell’austerità somministrata dai tecnocrati al governo ha portato nelle piazze prima e in parlamento poi i neonazisti di Alba Dorata. A noi, in fondo, è andata meglio: ce la siamo cavata con Grillo e Casaleggio.

Il problema radicale che abbiamo davanti è che a noi la soluzione tecnocratica non è stata imposta dall’esterno e continuare a raccontarcela così significa perpetuare una versione di comodo della storia: comodissima per il centrodestra, che della crisi del 2011 porta invece tutta la responsabilità, ma anche per il centrosinistra e per il Pd, che portano tutta intera la responsabilità della soluzione che a quella crisi scelsero di dare, in piena libertà, con il governo Monti. Una risposta quasi automatica, perché iscritta nella storia, si potrebbe dire quasi nel codice genetico delle classi dirigenti italiane della Seconda Repubblica. Un assetto nato non per niente da una crisi finanziaria e da una contemporanea crisi di legittimazione del sistema politico affrontate entrambe allo stesso modo: con la sospensione della naturale dialettica destra-sinistra, con i tecnici al governo e il populismo in piazza. Mentre sosteneva manovre finanziarie durissime in parlamento, allora la sinistra pensò di riguadagnare consensi cavalcando nel modo più spregiudicato la tigre dell’antipolitica eccitata dalle inchieste di Mani pulite. Accettò cioè di giocare allo stesso gioco cui si dedicavano i grandi poteri costituiti del paese: grande capitale, grandi giornali e grandi procure. La crisi economica e politica esplosa nel 2011, in cui siamo ancora immersi, ha seguito un andamento analogo. L’unica differenza è che questa volta, per compensare il sostegno alla soluzione tecnocratica e alle sue politiche restrittive, abbiamo pensato che bastassero le primarie.

Lo ripetiamo, perché è una verità che dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia: non è stato un errore tattico, una svista, un passo falso. La scelta di affrontare la crisi del 2011 puntando sul governo Monti da un lato e sulle primarie dall’altro è stata la scelta più naturale e più coerente con la storia del centrosinistra dalla crisi del ’92 a oggi. La debolezza organica della sinistra italiana viene da qui, non è una novità degli ultimi anni. E la sua origine è ben visibile in quella frattura tra sinistra e ceti popolari certificata in modo drammatico dalla composizione sociale del voto delle politiche 2013, che priva la sinistra della sua ragione sociale.

Siamo al dunque, al momento decisivo in cui bisogna scegliere: accettare e magari addirittura accompagnare il processo di autoesclusione dal circuito della rappresentanza politica di una massa sempre più ampia di persone, per giocare la competizione sul terreno apparentemente più rassicurante della conquista delle élite, oppure decidere di provare a ricostruire una democrazia degna di questo nome, facendo proprio di quel crescente senso di esclusione la leva del cambiamento, per trasformare il paese non in nome degli italiani, ma assieme a loro. Chi come noi crede che solo questa possa essere la strada, non può però chiudere gli occhi di fronte alla sfiducia, al risentimento, al rancore che una parte degli italiani mostra nei nostri confronti. Né può pensare di risolvere il problema con qualche colpo di scena e qualche battuta a effetto che lisci il pelo alla furia populista. Il risentimento contro di noi è profondamente stratificato. Come nella psicoanalisi, rimuoverne l’esistenza non permetterà mai di andare oltre. Per superare il trauma occorre rielaborarlo. Come nell’archeologia, occorre procedere per gradi, strato dopo strato, con attenzione e rispetto per ogni più piccolo elemento, ma avendo il coraggio di andare fino in fondo. Altrimenti non basterà nemmeno la rimozione di un gruppo dirigente e la sua sostituzione con personalità nuove, meno legate agli errori del passato. Perché continueranno a ripeterli.

Risalendo indietro nel tempo, strato dopo strato, è alla maledizione degli anni novanta che dobbiamo tornare per trovare la radice del risentimento, a quella prima stagione di governo della sinistra che tante aspettative e speranze aveva suscitato. Erano gli anni della terza via, della sinistra vincente nell’Europa unita che nasceva. Una sinistra che, dopo avere salvato l’Italia dalla bancarotta e avere compiuto il miracolo di portarla nell’euro da protagonista, si affermava in nome del cambiamento e della modernizzazione. Si imponevano nuove parole d’ordine e nuove politiche, che promettevano crescita e sviluppo, benessere e realizzazione individuale. Erano gli anni in cui, anche per impulso della sinistra, la politica arretrava passo dopo passo per lasciare spazio al mercato. Di sindacati non ci sarebbe stato più nemmeno bisogno, perché nell’era della flessibilità i lavoratori – forti del capitale immateriale acquisito con la propria formazione – avrebbero contrattato individualmente le migliori condizioni possibili. I partiti, per sopravvivere, dovevano rinunciare alla parzialità della rappresentanza d’interessi, divenendo ectoplasmi sostanzialmente indistinguibili l’uno dall’altro (le parole d’ordine e le ricette economico-sociali erano in definitiva le stesse per tutti), che competevano esclusivamente sulla scelta della migliore agenzia di comunicazione.

L’Italia di oggi è figlia di quella visione. Il dramma della precarietà, la disoccupazione, la condizione para-schiavile persino di quei ceti intellettuali che avrebbero dovuto essere i vincitori della globalizzazione è lo specchio in cui – venti anni dopo – possiamo misurare la distanza tra le nostre promesse di allora e la realtà che hanno generato. La retorica nuovista di allora, come il ritratto di Dorian Gray, ci ha dato l’illusione di non invecchiare mai, rendendoci superficiali e vanitosi. E così ancora oggi non cogliamo il senso della nostra stessa storia, persi dietro l’insistita autocelebrazione della “meglio classe dirigente” che ha salvato il paese. Una convinzione che rende molto difficile far pace con quei milioni di italiani, più e meno giovani, a cui in molti casi abbiamo contribuito a rovinare la vita. Perché sono i tanti giovani precari e adulti precarizzati di oggi ad aver pagato il prezzo della nostra rinuncia a una lettura critica del grande cambiamento che stava rimodellando il mondo a immagine e somiglianza di una oligarchia rapace ed egoista; sono loro le vittime della nostra convinzione di poter cavalcare l’onda del “fondamentalismo di mercato” degli anni novanta senza esserne travolti. Abbiamo accettato di giocare su un campo disegnato dalla destra, relegando la politica al curioso ruolo di regolatore incaricato esclusivamente di abolire le regole. Abbiamo sposato anche noi una visione individualista, egocentrica e narcisistica della libertà, rimuovendo qualunque idea di responsabilità (compresa quell’idea antica e iscritta nella Costituzione che parla di responsabilità sociale delle imprese, che non sono mai solo ed esclusivamente “affare” dei loro proprietari).

La maledizione degli anni novanta ha ancora effetto su di noi: il pudore verso gli errori di quegli anni continua a farceli ripetere e impedisce non solo di imboccare una strada nuova, ma anche solo di riconoscerne l’esistenza. Non riusciamo oggi a mettere in discussione la presunta neutralità tecnica di soluzioni che sono politiche perché della politica rinunciammo allora a rivendicare il primato. Non siamo in grado di incidere sulle grandi partite che cambiano gli equilibri industriali e produttivi perché ci piegammo alla assurda tesi secondo cui la politica non deve occuparsi di economia (anche quando tanti dirigenti della sinistra si accodavano all’assurda campagna contro l’Unipol, basata sull’invenzione di una gigantesca cospirazione politico-affaristica che solo pochi mesi fa è stata finalmente e inequivocabilmente dichiarata fasulla in tribunale). Scarichiamo la soluzione di ogni problema sulla costruzione di un’Europa politica, non vedendo che un’Europa politica c’è già ed è quella plasmata da noi e da tanta parte della sinistra europea, che alla fine degli anni novanta era al governo praticamente ovunque, ma che ha finito per essere come la voleva la destra. Abbiamo accettato il primato del mercato e così abbiamo progressivamente reso impronunciabili le parole della politica, rinunciando alla libertà di determinare il cambiamento. Una vera e propria damnatio memoriae ha cancellato dal dibattito pubblico politiche e strumenti attraverso cui si era costruito un modello sociale originale che aveva reso l’Europa la parte più giusta e felice del pianeta. Per spezzare la maledizione dobbiamo partire da qui, dal coraggio di tornare alla politica. E raccontare, senza timidezze, una storia nuova, uscendo dalla subalternità ma rifiutando al tempo stesso anche i tic antimoderni di un radicalismo distruttivo.

È quello che vogliamo fare dedicando un numero al mercato e provando a dimostrare che senza uno stato che agisca da protagonista sarà impossibile uscire dalla crisi: l’idea che innovazione ed efficienza possano esistere solo fuori dalla dimensione pubblica conviene sicuramente a chi si avvantaggia dell’arretramento dello stato, ma non ha alcun fondamento scientifico, come non ce l’ha la stanca litania secondo cui la riduzione dei diritti e l’umiliazione del lavoro gioverebbe alla competitività, cantilena preferita da un capitalismo straccione che non è in grado di competere sulla qualità. Non è obbligatorio rinunciare all’idea di conciliare crescita e giustizia sociale anzi è vero il contrario: senza eguaglianza è più difficile produrre sviluppo. E non si può pensare di risolvere tutto con la riduzione di spread e tasse, senza trovare il coraggio di intervenire radicalmente a ridisegnare insediamenti produttivi e strategie industriali di un paese che da troppi anni è privo di visione strategica. Né si può accettare di attraversare la crisi con l’unico assillo di mantenere gli equilibri di potere del paese immutati, come spesso sembra voler fare anche una parte delle classi dirigenti della sinistra al governo. Magari al costo di sacrificare quel poco che resta dell’industria pubblica, ripetendo lo schema fallimentare che portò, sotto la spinta della furia privatizzatrice degli anni novanta, a colpire e affondare un pezzo importante dello scheletro industriale del paese. L’obiettivo dovrebbe essere esattamente l’opposto: nel fuoco della crisi sradicare le oligarchie, combattere le diseguaglianze, aprire nuovi spazi di opportunità a milioni di persone. È su questo terreno che si misura la capacità di governare un paese e guidarlo fuori dalla crisi. In fondo al tunnel ci sarà la luce non solo se lo diranno gli indicatori macroeconomici, ma se quella luce illuminerà un cambiamento reale.

Ecco il compito di chi oggi si misura con la necessità di ricostruire il principale partito della sinistra italiana. Se non vogliamo scoprirci personaggi secondari dell’ultima pagina di questo ventennio e scrivere invece la prima pagina di una storia nuova, non possiamo limitare la nostra ambizione al piccolo cabotaggio dei prossimi mesi, o peggio, immaginare come in passato di predicare innovazione per non cambiare niente. Ed evitare così la fatica e i rischi di una battaglia culturale difficilissima, ma indispensabile. La generazione che ci ha preceduto, almeno per quella parte che proveniva dal Pci, considerava suo compito storico portare la sinistra, per la prima volta unita, al governo dell’Italia. Con tutti i limiti e gli errori di quel gruppo dirigente, l’obiettivo è stato raggiunto e per questo i padri del centrosinistra e del Partito democratico meritano rispetto. Ciò non toglie che a noi, oggi, tocchi però un compito diverso: non più, semplicemente, portare la sinistra al governo dell’Italia, ma portare il governo dell’Italia a sinistra, che è un altro discorso.