Fuori mercato

All’indomani della caduta del muro di Berlino, in tutti i paesi occidentali il dibattito pubblico fu dominato dalle celebrazioni per il definitivo trionfo della democrazia liberale e dell’economia di mercato. Nell’entusiasmo del momento, la seconda finì forse per sovrastare la prima, se non per prenderne il posto, e infatti nei decenni successivi a globalizzarsi fu il mercato, più che la democrazia. Ma non si può avere tutto. Nulla di paragonabile, in ogni caso, è accaduto all’indomani del crollo di Wall Street e della spaventosa crisi economico-finanziaria che dal 2008 ha messo in ginocchio metà del pianeta: negli anni novanta, trovare intellettuali disposti a difendere non diciamo il comunismo, ma anche soltanto lo sfortunato tentativo di riforma di Gorbačëv, era diventato più difficile che trovare un banchiere povero; oggi, invece, trovare sostenitori del liberismo e di tutte le teorie che hanno portato alla più grave crisi economica del secolo è facilissimo: basta accendere la tv o aprire un giornale. E chissà che la ragione non sia da rintracciare anche nella coincidenza segnalata nel suo articolo da Roberto Tamborini, dove osserva che le retribuzioni medie di chi lavora nel settore finanziario – arrivate al loro minimo storico negli anni sessanta, dopo la lunga discesa cominciata con la crisi del ’29 – prima della crisi del 2008 erano tornate giusto al livello degli anni venti.

Secondo i numerosi difensori di un simile sistema, le somme spropositate guadagnate da questa nuova aristocrazia planetaria non sarebbero altro che il responso oggettivo e indiscutibile del mercato. E pazienza se i contribuenti di mezzo mondo stanno ancora pagando i danni combinati da questi scanzonati miliardari. È la loro idea di meritocrazia. Quello che stupisce, per dirla con Fausto Raciti, è che sia diventata anche la nostra, a sinistra, insieme con tutte le formule e formulette note come “Washington Consensus”, che ormai non vanno più di moda nemmeno a Washington. Persino gli studi del Fondo monetario, come racconta Massimo D’Antoni, le smontano pezzo a pezzo. Del resto, l’idea che possa esistere una teoria di governo capace di risolvere definitivamente tutti i fondamentali problemi sociali è nata ben prima del liberismo, del socialismo reale e del comunismo ideale. È antica quanto l’infelicità umana.

Ma si sa che nella sinistra italiana – o almeno nella sua parte più larga, quella proveniente dal Pci – gli anni ottanta sono arrivati con un decennio di ritardo. In compenso, non se ne sono ancora andati. E così, anche dal nostro orizzonte, è sparita l’idea stessa della lotta contro la diseguaglianza, coperta e distorta da mille obiettivi di comodo e parole d’ordine equivoche. Così anche per noi i diritti sono diventati privilegi e i privilegi diritti, l’aristocrazia finanziaria che da tempo immemorabile eredita banche e giornali è diventata l’élite del merito e gli operai di Pomigliano una casta di fannulloni. Una lettura senza dubbio coerente della storia d’Italia e delle sue prospettive, da cui non per nulla è scomparsa la questione meridionale, in un ventennio in cui a dominare il dibattito è stata piuttosto la “questione settentrionale”. Il Mezzogiorno è sparito persino dal lessico della politica, anche a sinistra. E quando se ne parla, come nota Isaia Sales, lo si fa attraverso “categorie culturaliste”, con interpretazioni che insistono “sulle responsabilità soggettive della popolazione e delle classi dirigenti, fino a far coincidere il divario economico con un problema di mentalità”. Una reazione che in genere esprime il bisogno umano di trovare una facile rassicurazione: “Se le cose vanno male è perché chi sta male (chi è povero, chi è disoccupato) è causa dei suoi problemi”. Chiamatela, se volete, meritocrazia.

E così, soddisfatti dall’ampia gamma di risposte preconfezionate per tutte le esigenze più immediate fornite a getto continuo da tante diverse agenzie di informazione, comunicazione e intrattentimento, è accaduto che dalle nostre discussioni sono sparite le domande. Domande radicali come quelle che suscita ad esempio Mariana Mazzucato, a proposito di innovazione e sviluppo, quando osserva che tutte le tecnologie che stanno dietro l’iPhone sono state finanziate dal governo (internet, Gps, il display touchscreen). Quando si chiede cosa accadrebbe se scoprissimo che i cambiamenti più radicali prodotti dal capitalismo “non sono usciti dalla mano invisibile del mercato, ma da quella ben visibile dello stato”. Quando osserva che anche nel campo della famosa green economy, in paesi come Stati Uniti, Cina, Singapore, Germania, Finlandia e Danimarca, “lo stato finanzia quei settori caratterizzati da alta intensità di capitale e da elevata incertezza tecnologica e di mercato”, mentre “il capitale privato attende che il ritorno sugli investimenti si faccia più sicuro”. Quando, soprattutto, chiede quale sia il problema dell’Europa: la mancanza di investitori privati oppure la mancanza di un’ondata di finanziamenti pubblici che permetta all’investimento privato di attivarsi?

E allora, nel mondo di oggi, chi è che rischia davvero di finire fuori mercato, chi continua a ripetere le cantilene degli anni novanta o chi cerca di misurarsi con le novità di un “mondo che nessuno controlla”, secondo la definizione di Charles Kupchan, in cui tutti quanti, a cominciare dagli Stati Uniti, dovranno confrontarsi con un ordine mondiale di carattere sempre più policentrico e pluralistico, anche dal punto di vista economico?

In Italia, almeno per un po’, è probabile che fuori mercato resteremo noi. D’altra parte, l’esito delle elezioni e poi delle primarie dice che molta strada ci resta ancora da fare. E tuttavia, se guardiamo a quello che succede nel mondo, agli Stati Uniti di Obama, alla chiesa di papa Francesco, non ci riesce di essere pessimisti. Nemmeno in una fase difficile come questa. Non è dunque solo per il necessario ottimismo della volontà che rimaniamo ragionevolmente fiduciosi, sul futuro della sinistra e anche su quello dell’Italia. Seduti sempre dalla parte del torto, sempre serenamente fuori mercato, nonostante tutto, rimaniamo ostinatamente convinti che prima o poi anche quelli che hanno sempre ragione dovranno alzarsi dalla loro poltrona e dalle loro comode certezze. Il muro di Wall Street è caduto sulle loro teste, anche se non vogliono darsene per intesi.