L’illusione delle privatizzazioni

Ogni tanto capita di leggere che il problema del debito pubblico italiano potrebbe avere soluzione alienando una parte del patrimonio dello stato e degli enti locali. Il tema era stato studiato con serietà, valutando pro e contro, tipi di beni e di regimi giuridici, da una commissione presieduta da Stefano Rodotà[1]. Nel contesto europeo, peraltro, nonostante due decenni di politiche favorevoli alle privatizzazioni, le imprese pubbliche o partecipate (elettricità, gas, telecomunicazioni, poste, ferrovie) sono protagonisti importanti, spesso con buoni risultati per gli utenti[2]. Ma a volte un argomento importante viene talmente semplificato da diventare una ricetta miracolosa.

Con un editoriale del 5 novembre 2013 sul Corriere della Sera, “Forza, vendete (e giù le tasse)”, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi offrono la loro versione di questa ricetta per l’uscita dalla crisi italiana. Vendere le quote pubbliche in Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, Fincantieri, Sace, ST Microelectronics, Poste Italiane, Cassa depositi e prestiti “produrrebbe circa 60 miliardi di euro”. Le Ferrovie “secondo alcune stime, altri 36”. Poi ci sono le aziende pubbliche locali: “Roberto Perotti e Luigi Zingales stimano il loro valore in circa 30 miliardi”. Infine, ci sono gli immobili, che “secondo alcune stime” valgono 300 miliardi. Dalle cessioni azionarie lo stato potrebbe incassare il 6% del pil e “fino al 15% dalle cessioni immobiliari”. Senza ridurre il debito, pari al 133% del pil, su cui si pagano 85 miliardi l’anno di interessi, “il 5,4% del pil”, il default non è escluso, le tasse in queste condizioni non si possono ridurre. Ci sono due sole alternative, o si vende il vendibile del patrimonio pubblico o si tassano i patrimoni privati degli onesti: “intanto i ricchi, preoccupati che la loro ricchezza venga colpita da una patrimoniale una tantum, l’avranno già nascosta all’estero”. Ergo, vendere!

L’idea che un risanamento della finanza pubblica si possa ottenere con la cessione di beni demaniali era piuttosto diffusa nel XIX secolo. Amilcare Puviani, un economista conservatore ma non conformista, nel saggio La teoria dell’illusione finanziaria (1903), sentiva il bisogno di mettere in guardia contro la vendita di patrimonio pubblico, segnalando che spesso serve solo ai politici per occultare e differire le tasse necessarie ad aggiustare i conti.

Puviani aveva ragione. I creditori dello stato non guardano all’ammontare assoluto del debito, ma al rischio che non sia onorato. L’indicatore di sostenibilità più citato è, come per Alesina e Giavazzi, il rapporto debito/pil. Si tratta di un indicatore grossolano, perché fra l’altro trascura di contabilizzare al numeratore le attività (reali e finanziarie) dello stato e considera solo le passività finanziarie. Le principali attività reali di uno stato, e di chiunque, sono i beni immobili che possiede, e quelle finanziarie sono i diritti che derivano dalla proprietà di azioni e altri titoli. Se lo stato è proprietario di un’azione dell’Eni, è titolare dei flussi di dividendi che ne derivano nel tempo (Eni da sessant’anni paga dividendi allo stato). Scambiare i diritti sui dividendi futuri con il prezzo dell’azione oggi può convenire o non convenire, dipende dal prezzo cui si vende l’azione in rapporto alla previsione dei dividendi. Lo stesso vale per i beni immobili, che anche quando generano un flusso di cassa modesto, si apprezzano nel tempo. Ovviamente le società a capitale pubblico possono essere in perdita e gli immobili deteriorarsi. Solo un esame caso per caso può determinare la convenienza di scambiare oggi minori passività finanziarie con minori attività reali e finanziarie. Ma Alesina e Giavazzi non considerano questo profilo temporale disaggregato. Suggeriscono una vendita in blocco, nella convinzione che una liquidazione massiccia di patrimonio abbia effetti positivi sulla sostenibilità del debito. Inoltre mettono assieme un po’ di tutto.

Accettiamo pure di ragionare solo sul rapporto debito/pil. Fra il 1946 e il 1960 è stato di circa il 40%. All’inizio degli anni ottanta era ancora intorno al 60%, livello considerato in seguito di riferimento dai trattati Ue. In poco più di un decennio, fra la seconda metà degli anni ottanta (grossomodo coincidente con governi di pentapartito) e fino al governo di emergenza di Ciampi, il rapporto debito/pil raddoppia, giungendo al 120%. Lì rimane, con oscillazioni, negli anni della Seconda Repubblica. Da Monti a oggi (2011-2013) c’è un ulteriore balzo di altri 12-13 punti. In tutto questo periodo l’avanzo primario (cioè il saldo al netto degli interessi) è positivo: i cittadini (non evasori) pagano più tasse del costo dei servizi che ricevono, buoni o cattivi che siano. Il rapporto fra debito e pil è in definitiva determinato da un lato dal rapporto fra disavanzo annuo e tasso d’interesse sul debito, che influenzano il numeratore, e dall’altro dal tasso di crescita del prodotto, che influenza il denominatore. Nell’ultimo decennio il dramma italiano si presenta in questa forma: la crescita del pil è zero e più recentemente addirittura negativa. Il denominato re non può che restare indietro rispetto al numeratore del rapporto debito/pil. Supponiamo di avere un debito pari a 100, su cui si paga un interesse reale (al netto dell’inflazione) del 2%, e un pil pari a 100. Il rapporto iniziale è 100/100. Il disavanzo primario annuo sia zero. L’anno dopo il numeratore è quindi passato a 102 per il solo effetto degli interessi. Se la crescita al denominatore è stata zero, il rapporto debito Pil è peggiorato a 102/100. A questo punto se Alesina e Giavazzi convincessero Letta (o chi per lui) a vendere tutto il vendibile, diciamo che il numeratore passerebbe di colpo a 80 (in realtà l’effetto si dovrebbe diluire nel tempo, se non altro per cercare i migliori compratori). Sul debito pregresso si continua a pagare il 2 per cento reale di interessi, quindi se all’inizio il rapporto scende drasticamente (81,6/100 l’anno dopo la vendita) è facile vedere che – senza crescita – dopo l’effetto una tantum il rapporto debito/pil riprende a salire. In undici anni si è circa daccapo, poco sotto il livello di partenza: basta una calcolatrice e usare la formula dell’interesse composto (1+0,02) e si trova che si è tornati all’incirca dove si era all’inizio. Intanto però ci si è mangiati 20 punti di pil di patrimonio pubblico. Ma Alesina e Giavazzi sostengono che grazie all’effetto una tantum della dismissione dovrebbe essere possibile abbassare la pressione fiscale e questo ridarebbe spazio alla domanda, quindi il denominatore dovrebbe tornare a crescere quanto basta perché l’effetto di riduzione del debito sia permanente e non temporaneo. Se ad esempio si tornasse a crescere in termini reali del 2% l’anno, il rapporto debito/pil verrebbe stabilizzato indefinitamente al nuovo livello più basso, e poco importa che intanto Eni, Ferrovie e beni immobili siano stati ceduti. Anzi, meglio, visto che i privati in media li gestiranno in modo più efficiente dello stato (ancora Alesina e Giavazzi, Corriere della Sera, 11 novembre 2013).

Ma allora l’aritmetica di questa ricetta è un po’ più complicata. La riduzione delle imposte senza diminuire la spesa tornerebbe a fare aumentare il numeratore, non ci sarebbe più un disavanzo primario nullo. Lo stimolo della domanda (al denominatore) dovrebbe quindi venire da un aumento del deficit (che era zero nell’esempio di cui sopra). Se il deficit fosse ad esempio del 2-3% all’anno, e dato che si pagano gli interessi sul debito residuo post-privatizzazione, che resta ovviamente cospicuo, il numeratore cresce daccapo più velocemente del denominatore, perché si somma l’effetto di interessi sul debito, sia pure diminuito ma ancora cospicuo, e del disavanzo. Occorrerebbe un moltiplicatore del disavanzo molto elevato per generare la combinazione di numeri che diano un profilo decrescente del rapporto debito/pil. E Alesina e Giavazzi non sono così iper-keynesiani da immaginare che la storia possa essere questa.

Se quella che viene proposta è una riduzione delle imposte, grazie alle dismissioni, ma senza aumento del disavanzo, allora si ha una combinazione: privatizzazione una tantum+riduzione delle imposte+riduzione contestuale della spesa pubblica. L’effetto di crescita (senza cui non c’è verso di ridurre il rapporto debito/ pil per interessi reali maggiori di zero) dovrebbe allora derivare dall’ipotesi che la riduzione bilanciata della spesa pubblica e delle imposte avrebbe un effetto positivo sulla domanda.

Semplifichiamo. Al contribuente si taglia un euro di imposta, si riduce di un euro l’assistenza sanitaria o la pensione (o lo stipendio se è un dipendente pubblico), e l’effetto di questo scambio, con bilancio più o meno in pareggio, dovrebbe essere espansivo di consumi e investimenti privati quanto basta per riacchiappare la dinamica degli interessi sul debito pubblico ridotto una tantum dalla privatizzazione. Forse anche il tasso d’interesse potrebbe scendere perché il mercato crede a questa politica.

Ma se si riduce la spesa pubblica di un euro e le imposte di un euro, l’effetto di domanda per varie ragioni potrebbe essere invece addirittura negativo o nullo: dipende da quali imposte, quali spese, quali contribuenti e servizi pubblici sono coinvolti. L’effetto sulla sostenibilità del debito a medio termine potrebbe non esserci o essere di segno opposto: se non altro perché, se l’effetto ipotetico di domanda non si verifica in misura sufficiente, i creditori a quel punto sanno che il loro debitore si è mangiato il patrimonio, quindi è meno solvibile. Del resto, in nessun paese del mondo uno shock macroeconomico da privatizzazioni ha avuto effetti misurabili sul pil, sicuramente ad esempio non in Gran Bretagna[3]. Lo stesso Fondo monetario internazionale, dopo gli iniziali entusiasmi del “Washington Consensus”, sconsiglia ormai ai paesi in via di sviluppo di tentare di risanare la finanza pubblica in questo modo. Si è capito che se ci sono squilibri di fondo, (s)vendere il patrimonio dello stato sposta un po’ in avanti la crisi, e poi la peggiora.

La cura del debito pubblico richiede di comprendere quali sono le dinamiche che lo alimentano. Il debito italiano è espressione di una crisi fiscale profonda, che contrappone da tempo diverse parti (classi, ceti, territori) della società italiana. La soluzione dei governi della fase finale della Prima Repubblica è stata quella di sedare le tensioni fra chi pagava le imposte e chi no, fra chi otteneva pensioni smisurate rispetto ai contributi versati e chi al contrario pagava più contributi di quanto riceveva, fra delinquenti e onesti, fra lavoro e rendite, fra imprese e parassiti di ogni tipo, il tutto variamente mescolato, propinando la panacea del debito. Questo conflitto distributivo e civile non solo non è finito, ma è la radice materiale dell’emergenza della Lega prima e di Berlusconi dopo. È il partito di chi si alza da tavola al ristorante e non vuole pagare il conto. E che accusa (di “comunismo”) l’oste. E cerca di convincere i commensali, costretti a pagare il conto più alto per coprire la defezione altrui, che la colpa è dell’oste. Pensare di chiudere la partita vendendo le imprese pubbliche, le spiagge e le caserme dismesse (cioè tavoli, sedie, posate del ristorante) significa non avere compreso struttura e dinamica della crisi fiscale italiana. La contropartita della crescita del debito pubblico soprattutto negli anni ottanta è stata la crescita di patrimoni privati da evasione, elusione e favore fisca le. Per favore fiscale intendo patrimoni derivanti non da comportamenti illegali (peraltro acuti e diffusi come in nessun paese sviluppato), ma dalla cattura dei governi da parte di corposi interessi che non hanno nulla a che vedere con l’impresa e con il lavoro. A fronte del nostro grande debito pubblico, il patrimonio netto dei privati in Italia (o almeno la parte che si riesce a stimare) è nell’ordine di almeno il 450% del pil, fra i più alti del mondo[4]; stime della Bce confermano che l’Italia dispone di una ricchezza privata maggiore della Germania. Dato che il reddito pro capite in Italia è minore che in Germania, il fatto che il patrimonio privato sia maggiore (e anche più concentrato) dovrebbe far riflettere.

Poiché non si riescono a tassare i redditi, e i consumi lo sono abbastanza, non resta che tassare i patrimoni, con una imposta prima straordinaria e poi ordinaria, con esenzione al di sotto di una certa soglia, aliquote moderatamente crescenti e regimi diversi per chi può dimostrare l’origine del patrimonio e chi non vuole farlo. L’effetto moltiplicativo è ben più certo di quello sottostante la manovra proposta da Alesina e Giavazzi. Per ogni euro d’imposta aggiuntiva sui patrimoni, un euro in meno d’imposta sui redditi o sui consumi avrebbe un sicuro effetto di stimolo della domanda, perché la propensione marginale al consumo è mediamente molto diversa fra consumatore/ lavoratore mediano e possessore di patrimonio al di sopra di una soglia opportuna (che potrebbe essere calcolata come frazione del reddito annuo familiare e sommata per alcuni anni). Non è questa le sede per entrare in dettagli tecnici. Basta avere suggerito la strada che andrebbe presa.

Tutto ciò non significa che non si possa e non si debba vendere, anche robustamente, patrimonio pubblico non più funzionale, e che non si debbano tagliare consistenti spese pubbliche di natura clientelare per sostituirle con spesa produttiva, e ridurre le imposte oggi di fatto regressive e insopportabili che gravano sul lavoro e sull’impresa. Queste cose vanno fatte, ma non risolvono la crisi fiscale. Solo i patrimoni privati (delle persone fisiche e di quelle giuridiche) hanno la capienza necessaria per la stabilizzazione del debito, da gestire con gradualità e fermezza.

Per varie ragioni, inoltre, oggi un’imposta patrimoniale è tecnicamente più fattibile di quanto si pensi. L’osservazione di Alesina e Giavazzi sui ricchi che nascondono la loro ricchezza all’estero non ha molto pregio, altrimenti non si capirebbe perché i grandi capitali siano rientrati per farsi tassare, sia pure poco, con lo “scudo”, e non solo in Italia. La fuga illegale è costosa per i ricchi migranti, in epoca di segreto bancario molto attenuato. Inoltre, oltre metà del patrimonio privato è immobiliare, e non può scappare da nessuna parte. Si tratta di valutare bene – come sempre con le imposte – le convenienze, l’equità, la deterrenza, gli effetti indiretti. Ma parlare di privatizzazioni di fronte a squilibri di fondo del patto fiscale è solo una nuova versione della vecchia illusione finanziaria.



[1] Cfr. gli atti di una discussione alla Accademia dei Lincei in Mattei, U., Reviglio, E., Rodotà, S., Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Il Mulino, 2007.

[2] Cfr. Florio, M., Network Industries and Social Welfare, Oxford University Press, 2013.

[3] Bacchiocchi, E., Florio, M., Privatisation and Aggregate Output: Testing for Macroeconomic Transmission Channels, Empirica, Springer, vol. 35(5), pages 525-545, December 2008.

[4] La Germania è intorno al 300%, gli Usa al 350%: dati Credit Suisse per il 2010; il Global Wealth Report del 2013 conferma che la ricchezza per ciascun adulto è maggiore in Italia (182 mila euro) che ad esempio in Germania, Olanda, Austria, intorno ai 130 mila euro.