Cambiare verso sull’occupazione femminile

Sarà che è il direttore del Fondo Monetario Internazionale, sarà che con gli uomini italiani a volte parlare in un’altra lingua serve, sarà che nemo propheta in patria, fatto sta che anche se noi donne italiane lo andiamo dicendo da tempo, ci è voluto il rimprovero urbi et orbi di Christine Lagarde in prima pagina sul Corriere della Sera per riaccendere finalmente i riflettori sull’emergenza dell’occupazione femminile nel nostro Paese.

“Sul lavoro alle donne siete i peggiori” ha detto senza troppi giri di parole l’ex ministro dell’economia francese, spiegando che “un cambiamento di rotta potrebbe avere effetti benefici sulla produzione di reddito aggiuntivo e quindi sull’uscita dalla stagnazione” e scatenando per tale via un vero e proprio vespaio di polemiche, mea culpa, promesse e generalizzati battimenti di petto.

Ora, con tutto il rispetto per madame Lagarde, che il nostro sia uno dei paesi europei che più scoraggia l’accesso delle donne al mondo del lavoro è una specie di segreto di Pulcinella. Lo sanno tutti, infatti, che l’Italia non è un paese per donne e men che meno per donne lavoratrici: non c’è studio o indagine statistica che negli ultimi anni non abbia messo nero su bianco questa vergogna. Basta guardare da ultimo i dati Istat 2013 secondo cui per livello di partecipazione femminile al mercato del lavoro l’Italia si colloca al terzultimo posto tra i Paesi Ocse, riuscendo a fare meglio solo di Messico e Turchia, e quanto all’Europa, se qui la media dell’occupazione femminile è del 58,6%, l’Italia è ferma al 51%. E se al Nord la percentuale è del 47,1% è facile immaginare quanto peggiori al Sud dove, complice l’impatto di una crisi devastante su un welfare già zoppicante, la forza lavoro femminile è crollata addirittura al 30,5%.

Che fare dunque? Pur apprezzando le buone intenzioni sollevate dalle parole del direttore del Fmi e pur condividendone l’opinione sulla necessità di cambiare rotta e di farlo in fretta, va detto che noi italiane, in particolare noi democratiche, da tempo stiamo cercando di sollecitare sul punto l’attenzione di governo e parlamento. In tal senso, il 5 marzo scorso, su sollecitazione delle donne del Pd, come gruppo alla Camera abbiamo depositato una mozione che all’esecutivo chiede espressamente di affrontare la questione, convocando a tal fine, con il coinvolgimento di tutti gli attori istituzionali e non, una conferenza nazionale sull’occupazione femminile da tenersi preferibilmente al Sud. Mozione che però, nonostante l’urgente attualità del tema, non è stata ancora calendarizzata e per la quale, invece, sarebbe davvero il caso che la conferenza dei capigruppo facesse uno sforzo di accelerazione sui tempi.

Il rischio che corriamo è molto serio, al di là del fatto che sprecando i talenti delle donne, come affermò Mario Draghi qualche anno fa da governatore della Banca d’Italia, l’Italia rinuncia praticamente ad azionare la prima e più “cruciale” – parole sue – leva per rimettere in moto il suo sistema economico e produttivo. Come ebbe a ripetere l’attuale governatore della BCE, infatti, portare l’occupazione femminile al 60% avrebbe determinato un aumento del Pil di almeno 7 punti percentuali. E non è anche questo ciò di cui abbiamo bisogno quando parliamo di migliorare il famigerato rapporto Deficit-Pil o vogliamo continuare a parlare sempre e solo del numeratore, come se il denominatore non contasse nulla? Rimandare ad libitum la discussione e la risoluzione del problema significa bendarsi gli occhi e voltarsi dall’altra parte, mentre il sistema crolla e con esso in primis la qualità di vita e i diritti delle donne lavoratrici.

È un cane che si morde la coda: più si assottigliano i servizi alla persona, più le donne che lavorano fanno fatica a conciliare tempi di vita e di lavoro. E siccome è proprio il welfare il settore professionale più femminilizzato – tanto da diventare un vero e proprio modello per la regolazione dei diritti delle donne lavoratrici – in questo modo diminuisce sia l’occupazione femminile in questo settore, sia quella negli altri per cui il terziario rappresenta un sostegno e quasi un volano fondamentale.

Insomma, noi lo ripetiamo da tempo, è l’ora di assumere il lavoro delle donne come priorità assoluta. I meccanismi pensati e introdotti finora per sciogliere i nodi non sono più efficaci: è evidente, infatti, che tutti gli strumenti adottati fin qui sono stati pensati in virtù di un mercato che puntava alla piena occupazione e rischiano ora di essere poco incisivi se non addirittura impotenti.

Per questo bisogna cambiare e bisogna farlo subito, con nuovi strumenti e modelli che però, se da un lato come afferma giustamente Lagarde devono prevedere un accesso più flessibile al part-time volontario, dall’altro non devono finire per penalizzare ulteriormente la già precaria posizione delle donne nei luoghi di lavoro. E a leggere le prime bozze del Jobs Act presentato dal governo il rischio non è affatto peregrino. Se verranno confermate le intenzioni di prorogare fino a otto volte in tre anni i contratti a termine, saranno proprio le donne e i giovani a pagare il prezzo più alto. Sì, perché davanti a questa possibilità, quale datore di lavoro – che vede la donna solo come portatrice sana di richieste di aspettative e permessi per figli e maternità – vorrà ingegnarsi a capirne le intenzioni procreative o tentare la strada delle dimissioni fasulle quando sarà possibile, più semplicemente, imporle contratti su contratti a termine? Non è possibile vanificare così il lavoro svolto sulle dimissioni in bianco e i tanti traguardi già raggiunti in parlamento e nella società grazie alle tante battaglie condotte dalle donne, e non solo.

E allora, se davvero è arrivato il momento di cambiare verso a tutto, perché non cominciare pure qui a cambiare rotta passando finalmente dalle parole ai fatti?

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Valeria Valente è presidente del Comitato Pari Opportunità della Camera