Jobs Act, il lavoro non è finito

In una recente intervista su Repubblica, Mario Tronti diceva che anche se “sbatterci contro senza l’airbag può far male, non si può più prescindere dai fatti”. I fatti sono che viviamo la crisi più dura della storia recente e che la precarietà è diventata una trappola per milioni di persone, non più soltanto i giovani. Sono esplose le disuguaglianze e si sono disposte lungo nuovi confini: ovviamente il reddito, ma anche le protezioni sociali. Il rischio di una guerra tra poveri – di reddito e di diritti – è reale. La sfida della sinistra è prima di tutto evitare che ciò accada e farlo in fretta.

Chi ha tra i 30 e i 40 anni, insieme con chi sta in quel  44,2% di giovani tra i quindici e i 24 anni che non studiano e non lavorano, non può più aspettare. E non può più aspettare nemmeno il paese: un’economia sana cresce aumentando il lavoro di qualità; un’economia malata, come quella di una buona parte dell’occidente, si accontenta di sfruttare e svilire il suo capitale umano, fino a che – nei dati economici, ma soprattutto nella vita delle persone – la recessione è inevitabile.

Il Jobs Act è un passaggio cruciale, perché prevede un grande ripensamento degli ammortizzatori sociali; la tutela per maternità che deve riguardare le lavoratrici dipendenti, parasubordinate e autonome; l’estensione del diritto ai contributi figurativi, soprattutto per i giovani, e nuovi sistemi e strumenti per la gestione della formazione continua dei lavoratori. E poi ci sono gli importanti passi avanti fatti in questa settimana: nel testo entreranno ora il contrasto alle dimissioni in bianco (votate alla Camera ma arenatesi al Senato), una prima forma di universalizzazione degli ammortizzatori, la prevalenza del contratto a tempo indeterminato, la drastica riduzione delle tipologie contrattuali precarie.

Non è un elenco di poco conto, sono strumenti veri che Renzi ha inserito nel documento votato nella Direzione del Pd, recependo molte delle proposte di chi aveva provato a interloquire nel merito col Jobs Act del governo piuttosto che puntare a esacerbare gli animi per costruire un nuovo momento di battaglia interna al Pd.

Certo, restano ancora nodi da sciogliere: sulla normativa contro i licenziamenti disciplinari e discriminatori (articolo 18), bisognerà trasformare le indicazioni politiche in norme giuridiche di facile e pronta interpretazione. Se gli obiettivi da raggiungere, insieme all’universalizzazione delle tutele, sono la semplicità e la certezza delle regole, servono ancora dei miglioramenti.

La discussione che sta facendo il Pd è accesa perché è vera, a volte aspra perché onesta: non si tratta di seguire o meno un capo al comando, di dividersi tra “followers” e “ribelli”, ma di mettere le mani nel grumo di contraddizioni del nostro paese. Proprio per questo abbiamo il dovere della sincerità: il Jobs Act può sconfiggere la precarietà, ma non creare occupazione. La tesi che per farlo sia sufficiente una riforma del mercato del lavoro è stata ormai ripetutamente smentita dalla storia.

Se davvero vogliamo ricominciare a creare lavoro serve un impegno più forte nelle politiche per lo sviluppo, ciò che più è mancato in questi anni. Anni in cui non vi è stato il coraggio di definire con chiarezza gli asset strategici su cui concentrare gli investimenti. Si è preferito galleggiare, molto spesso favorendo chi favorito lo era già. Si è dato spazio al mercato senza regole, si è detto che lo stato non doveva intervenire, si è favorita la crescita da rendita finanziaria a discapito dell’economia reale e del lavoro.

Siamo arrivati così all’emergenza economica e sociale, e serve darsi delle priorità: creare lavoro significa ripensare e mirare gli investimenti di stato e imprese all’interno di una nuova politica industriale nazionale. Il governo Renzi è impegnato in queste ore in Italia e in Europa per individuare le risorse da inserire già nella prossima legge di stabilità. Un obbiettivo importante nel quale si devono vedere però i primi segni di quel coraggio mancato in questi anni: quale Italia immaginiamo e con quali strumenti di politica industriale pensiamo di costruirla. Sarebbe forse il caso di dedicare a questa riflessione lo stesso tempo e la stessa passione che abbiamo speso, e continueremo a spendere, sul Jobs Act.

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Chiara Gribaudo è parlamentare del Partito democratico