Marino e la delocalizzazione dell’archeologia

Immaginate se il presidente della Regione Toscana se ne uscisse tutto fiero con il seguente annuncio: “Grazie ai generosi finanziamenti della ItCom, il raccolto di uva del Chianti di quest’anno verrà spedito a Minneapolis dove, con sofisticate tecniche di spremitura e con fermentazione entro botti di rovere della migliore qualità, verrà trasformato in ottimo vino dai maestri vinicoli del Minnesota. Il vino verrà imbottigliato in eleganti bottiglie di purissimo vetro e riportato in Italia per essere goduto sulle tavole di italiani e turisti. Un’operazione che, se fosse fatta in Toscana, avrebbe richiesto spese ingenti verrà così eseguita in Minnesota a costo zero”.

Non pensereste che è impazzito? Eppure è più o meno quello che è successo col sindaco di Roma, Ignazio Marino, che ieri ha annunciato un accordo con l’Enel per lo studio e la catalogazione dei reperti archeologici in deposito presso il Comune di Roma. Alcune centinaia di reperti verranno imballati e spediti all’estero, “dove saranno oggetto di ricerca e analisi con strumenti tecnologici all’avanguardia da parte di ricercatori di musei e università tra le più prestigiose del Nord America, per poi essere restituiti alla città classificati e catalogati, pronti per essere inseriti in importanti progetti espositivi e culturali. Un lavoro che se Roma dovesse fare da sola, con le proprie risorse, richiederebbe decenni. Oggi, invece, possiamo avvalercene a costo zero”.

Un’operazione, quella di spedire oggetti archeologici all’estero per studio e catalogazione, che non fanno neanche i paesi del terzo mondo, quelli realmente privi di professionalità qualificate, i quali – giustamente – pretendono che siano gli studiosi stranieri ad andare in loco a studiare i materiali, a portare tecniche e professionalità, instaurando cooperazioni e scambi più o meno fruttuosi. Figuriamoci in Italia, dove a mancare non sono né figure professionali di eccellenza, né competenze scientifiche, né “tecnologie all’avanguardia”, ma piuttosto politiche culturali adeguate, riconoscimenti professionali e investimenti significativi.

Enel ha deciso di investire centinaia di migliaia di euro in un’operazione culturale meritoria, quella di studiare e valorizzare, anche all’estero, parte del nostro patrimonio archeologico; un sindaco che avesse chiaro il senso del proprio compito istituzionale avrebbe potuto rispondere che certo, gli investimenti privati sono i benvenuti e che certo, capisce l’esigenza di visibilità internazionale dello sponsor, ma che lui, in effetti, è il sindaco di Roma, non di Oklahoma City, e che se possiamo creare lavoro, cerchiamo di farlo anche in Italia.

Ma Marino ha tirato fuori le parole magiche: “a costo zero”. Le quali, in un mondo normale, dovrebbero far scattare immediatamente in qualsiasi cittadino l’alert “sòla in arrivo”, e invece hanno oggi il potere di far apparire conveniente anche l’operazione più insensata. Come quella di formare a spese pubbliche studiosi e professionisti ai più alti livelli con lauree, specializzazioni e dottorati, per poi lasciarli disoccupati o costringerli a espatriare, mentre si affidano all’estero lo studio e la valorizzazione del patrimonio culturale. Ma che ci volete fare: è a costo zero, e pazienza se il costo è zero per via del fatto che a pagarlo sono gli archeologi disoccupati.

I reperti andranno dunque negli Stati Uniti, dove saranno studiati da ricercatori internazionali la maggioranza dei quali si è probabilmente formata e specializzata in Italia; molti di essi saranno anzi certamente italiani espatriati per mancanza di opportunità qui da noi. I ricercatori avranno un buon finanziamento pagato dall’Enel per studiare a Oklahoma City reperti scavati e conservati in Italia, che in Italia torneranno poco dopo, “carichi di valore culturale” e pronti per essere esposti nei musei. Quanto una simile operazione possa giovare all’archeologia italiana lasciamo giudicare al lettore.

Fino a ieri l’ultima residua speranza di archeologi, restauratori e lavoratori dei beni culturali era che, in mezzo a questa crisi che ha travolto tutti, il lavoro sul patrimonio storico-artistico – almeno quello – non si poteva delocalizzare. Sbagliato. A quanto pare la crisi è tale che anche il sindaco di Roma ha cominciato a ragionare come il più miope industrialotto: se posso risparmiare due lire, allora faccio fare tutto all’estero; e il cortocircuito ideologico che ha investito anche la politica è talmente esteso che, in nome del risparmio, un sindaco di sinistra può rivendicare con orgoglio la delocalizzazione del nostro patrimonio storico e l’umiliazione di centinaia di lavoratori iperspecializzati.