Non siamo in guerra

Senza alcuna pretesa di sistematicità o di esaustività, provo a ordinare gli argomenti che si sono usati non per giustificare l’orrenda strage di Parigi, ma per sottrarsi all’obbligo di pensare che siamo in guerra. Per la verità, io stesso non penso che noi europei (sottolineo: noi europei) siamo in guerra, in una condizione non dico da leva militare obbligatoria e sforzo bellico dell’industria nazionale, ma nemmeno di riduzione degli spazi e delle forme ordinarie della vita civile e politica. Quelli che parlano di terza guerra mondiale – dal Papa in giù – solitamente accusano gli altri di non avere il coraggio di chiamare le cose col loro nome. Il minimo dunque che si possa chiedere è se, chiamando guerra ciò che ci sta capitando intorno, intendono proprio ciò che la parola significa a norma di vocabolario, e secondo la comune esperienza storica. Quelli che parlano di guerra compiono a questo punto un’altra operazione: aggettivano la guerra in modo che sia conforme alle condizioni in cui viene secondo loro combattuta. La guerra è informale, strisciante, asimmetrica, irregolare, terroristica, non convenzionale. Mi limito a osservare che proprio l’aggettivazione è l’inizio di quell’opera benemerita di distinzione che è tutto ciò che chiedono i fautori della tesi opposta (quorum ego): tant’è vero che per ogni aggettivo apposto si troverà sempre qualcuno pronto a considerarlo un eufemismo, un cedimento, una mancanza di coraggio intellettuale.

D’altronde (e poi la finisco con le premesse, pure necessarie) l’argomento migliore per respingere questa tesi credo stia proprio nel fatto che se ne possa discutere: ho sempre pensato infatti che se sei in guerra te ne accorgi da ciò, che non hai nemmeno il tempo e la possibilità di chiederti se tu lo sia. È un problema, peraltro, che chiunque ami la filosofia si trova sempre tra i piedi: si argomenta, si discute, si cavilla persino, finché qualcuno non obietta che, però, uno scapaccione permette di farla finita subito. Ecco: nonostante i fatti di Parigi e la loro assoluta gravità, non mi pare che lo scapaccione sia arrivato, altrimenti non si sarebbero formati i due partiti che (in omaggio a un’antica tradizione medievale) voglio chiamare dei «nominalisti» e dei «realisti». I primi sono quelli che: i fatti parlano chiaro e tutto il resto sono vuote chiacchiere, meri nomina; i secondi sono quelli che: invece le parole sono importanti e comportano conseguenze di qualche peso. Di questi ultimi sono gli argomenti che voglio provare a raggruppare.

Il primo gruppo comprende gli argomenti che insistono sulla contabilità delle vittime: poche. Soprattutto se messe a confronto da quelle provocate dalle armi occidentali, in Afghanistan, Iraq o altrove. A questo gruppo io iscriverei anche, in generale, tutti gli argomenti che provano a minimizzare le responsabilità: quindi tutte le teorie complottiste (specialità grillina), e tutte le sottolineature dell’azione isolata, della scheggia impazzita e così via.

Il secondo gruppo di argomenti cita a vario titolo le responsabilità storiche dell’Europa e dell’Occidente (in molti modi declinate). In breve: la colonizzazione e la sua non risolta eredità, l’eurocentrismo. Rivendicazioni e recriminazioni del mondo arabo e musulmano nascerebbero da lì. Va pure ricordato per completezza che, di solito, a questi argomenti viene anche affiancata l’annosa questione palestinese, che rimane aperta e a rischio di «islamizzazione».

Il terzo gruppo di argomenti mette in evidenza le condizioni di emarginazione sociale degli immigrati di seconda generazione, le difficoltà dell’integrazione, il fallimento del multiculturalismo, la banlieue parigina e così via. L’idea è che la motivazione religiosa è solo la miccia, ma il carburante lo forniscono il razzismo strisciante, l’esclusione sociale, la disoccupazione.

Il quarto gruppo di argomenti, infine, interviene sulla definizione del nemico. Identificare l’Islam con il terrorismo islamista è regalare all’islamismo radicale e terrorista la rappresentazione di tutto l’Islam, di tutto il miliardo e seicento milioni di musulmani che ci sono al mondo. E così fare il gioco del nemico, perché infatti: cos’altro vogliono i terroristi?

Ho terminato la mia rassegna, e vengo, in breve e con semplicità, a quel che mi preme dire. E cioè che queste diverse strategie argomentative non stanno tutte sullo stesso piano. In particolare, la prima (quella dei minimizzatori) mi pare decisamente lontana da qualunque intelligenza storica dei fenomeni, e confesso che difficilmente saprei discuterne senza spazientirmi. Il secondo (responsabilità dell’Occidente) e il terzo (fallimento dell’integrazione) gruppo di argomenti io credo invece che siano validi, sia pure con qualche precisazione, ma non certo per giustificare o relativizzare gli atti terroristici, e nemmeno per decidere se siamo o no in presenza di una guerra. I «nominalisti» vorrebbero però che non venissero affatto adoperati, e sostengono che usandoli si inibisce la capacità di risposta dell’Occidente. Confesso che non mi è chiaro perché: non capisco cosa impedisca di pensare che l’Occidente qualche colpa ce l’ha, e al tempo stesso – che so? – potenziare i servizi di intelligence. Domando: i due milioni di francesi scesi in piazza domenica – una boccata d’ossigeno per le nostre democrazie – sono tutti lontani dall’usare quegli argomenti? Io credo proprio di no. Eppure sono loro la prima e fondamentale risposta all’attacco terroristico.

Infine, il quarto argomento (non identificare l’Islam con il nemico): il più importante. A volerlo trattare per bene, bisognerebbe impegnarsi in uno studio minuzioso di scenario che è, per la verità, specialità degli analisti internazionali. Ma, nell’essenziale, esso chiede di guardare all’intero scacchiere arabo e musulmano senza lasciarsi intimidire da quelli che respingono per principio distinzioni all’interno di quel mondo, per negare che da qualunque parte vi sia o possa esservi un Islam moderato. Un’evidente stupidaggine. Le si fanno sempre, queste distinzioni. Ed anzi a farle per primi sono proprio i «nominalisti», che secondo i sani principi della Realpolitik non disdegnano mica le alleanze con i sauditi e gli emirati arabi: non sono musulmani pure loro? Anche questo argomento, tuttavia, preso per sé, non dice certo che non siamo in guerra. Però ha un merito grande, io credo: consente di vedere che se c’è una guerra in corso questa è anzitutto all’interno del mondo musulmano, per il prevalere dell’una o dell’altra componente. Del resto, il maggior numero di morti è lì.

E allora la questione vera è se non convenga piuttosto scegliere fra le due parti in guerra, piuttosto che farne di due una e mettersela così tutta contro. Io, almeno, proverei a far così. E le parole recenti del presidente egiziano Al-Sisi, a cospetto delle principali autorità religiose del suo paese, mi sembrano il modo migliore per concludere questo argomento: «L’Islam odierno deve liberarsi di un pensiero erroneo, caratterizzato da idee e testi che noi abbiamo sacralizzato nel corso degli ultimi anni, che conduce l’intera comunità islamica a inimicarsi il mondo intero. È mai possibile che un miliardo e 600 milioni di persone possano mai pensare di riuscire a vivere solo se eliminano il resto dei 7 miliardi di abitanti del mondo? No, è impossibile!». Frasi che non si erano forse mai sentite prima nel luogo dove sono state pronunciate, l’università cairota di Al Azhar, ma che i «realisti» – quelli che tengono alle parole e tengono pure a quest’ultimo argomento, il quarto (quorum ego) – pensano sia un gran bene ascoltare. E lavorare, politicamente e culturalmente, perché si ascoltino sempre di più. Per parte mia, infatti, una guerra con un miliardo e seicento milioni di musulmani, fossimo anche in sette miliardi, io non penso che sarebbe una grande idea scatenarla.