Un problema di classe dirigente culturale

A partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, di fronte alla volontà delle nuove classi dirigenti politiche di dare vitalità e centralità al sistema culturale italiano e romano, si decise di intervenire imprimendo un nuovo impulso a un settore fino a quel momento marginalizzato. Si inaugurarono nuovi musei e istituzioni culturali, si sperimentarono nuove forme di gestione, si riformarono le strutture amministrativo-burocratiche, aumentarono gli stanziamenti pubblici e vennero individuate nuove personalità, alcune davvero competenti e addirittura talentuose, per presiedere, dirigere o partecipare al governo di istituzioni, assessorati, festival, case delle arti, enti, fondazioni pubbliche o semipubbliche, spa a vocazione culturale: erano le nuove risorse chiamate a gestire nuovi contesti. Un vento fresco sembrava soffiare sul mondo della cultura.

I risultati, indubbiamente, furono notevoli: i musei rinnovati (quando non addirittura nuovi di zecca) accoglievano visitatori entusiasti, le notti bianche affollavano i panorami notturni delle città di turisti e cittadini, i teatri e i festival e i concerti riempivano le pagine dei giornali, si risentì addirittura parlare di rinascita del cinema italiano. Il Ministero dei Beni culturali cambiò denominazione e aggiunse alle sue competenze lo spettacolo e il cinema. Gli assessori alla cultura dei maggiori comuni italiani diventarono vere e proprie celebrità. Le inaugurazioni si susseguivano e la mano pubblica si insediava con decisione nel settore culturale occupando anche spazi che, come ha dimostrato la storia, sarebbe stato meglio lasciare all’iniziativa privata. La primavera culturale italiana e romana era finalmente arrivata.

Cosa è accaduto da allora lo sappiamo. Malgrado le magnifiche sorti progressive previste dai governi e dai sindaci di centro sinistra, le successive politiche di bilancio locali e nazionali, la crisi economica, ma anche l’aver compiuto, nei periodi di vacche grasse, scelte talvolta improvvide – orientate troppo all’evento e poco alla creazione di un solido sistema culturale – hanno rapidamente interrotto quello che ci si era illusi fosse un moto rettilineo uniforme (eventualmente anche accelerato). Chiudono i teatri, si minaccia il licenziamento di intere orchestre, si definanziano festival ed eventi, crolla il consumo di cinema nelle sale. E anche i musei – anche quelli che solo pochi anni fa avevano fatto mettere in coda migliaia di cittadini – rischiano di chiudere per i tagli di bilancio dei comuni.

Intrappolati in questa bufera ci rimane, tuttavia, qualche punto di riferimento. Perché laddove tutto o quasi tutto è cambiato negli ultimi venti anni, una costante è rimasta intangibile: i nomi di coloro che governano il sistema e che vengono riproposti a prescindere da ogni valutazione sui risultati (che, visto lo stato della macchina culturale e creativa nazionale e locale, non sono sempre stati ottimali). Negli ultimi due decenni si è continuato ad attingere al medesimo bacino di personalità che si avvicendano in cariche successive (e talvolta anche simultanee): il dottor A ha lasciato la direzione dell’azienda culturale X – assunta immediatamente dal professor C già direttore artistico del festival W – per presiedere la fondazione Z. Alla direzione X è stata collocata la dottoressa B che ha già ricoperto ruoli istituzionali oltre che di consigliere di amministrazione presso il teatro Y… e così via, muovendosi molto velocemente per confondere il nemico.

La perversa strategia in atto da decenni in Italia sembra quella descritta in un saggio da Paul Watzlawick. Lo psichiatra del Mental Research Institute di Palo Alto ci spiega che molto spesso per risolvere uno stato di difficoltà e di crisi si tende ad adottare una soluzione già sperimentata in precedenza anche se nel frattempo il contesto è radicalmente mutato. Il problema, ovviamente, non si risolverà e malgrado ciò si insisterà caparbiamente nella soluzione sbagliata. Il drammatico risultato di questo procedimento – ci spiega Watzlawick – è la trasformazione della iniziale difficoltà in una patologia: le vecchie soluzioni sono diventate parte integrante del problema.

A questo punto mi si potrebbe obiettare: e quindi? Quindi, forse, dovremmo ristrutturare le premesse da cui partiamo e uscire dalla gabbia fatta di cultura-petrolio-d’Italia, di patrimonio-culturale-che-tutto-il-mondo-ci-invidia, di pretese di primazia quantitativa intrecciate con l’esterofilia acritica, di nostalgia per un passato – che sia rappresentato dall’Estate Romana di Nicolini o da modelli che hanno fatto il loro tempo – riproposto e replicato all’infinito. Perché se siamo convinti che la malattia italiana si sostanzi, ad esempio, nel non riuscire a far cassa con i musei e la cultura, la cura applicata non potrà che peggiorare la situazione. Per uscire da questa logica perversa dovremmo innanzi tutto comprendere che la vera malattia della cultura italiana (e non solo della cultura) è l’aver rinunciato a puntare sulla creatività, sull’innovazione, sulle idee eterodosse. L’aver rinunciato a guardare a noi stessi, al paese e al mondo da un punto di vista che si collochi fuori dalla gabbia rassicurante nella quale ci siamo rinchiusi.