Sindrome olandese

Forse in questi giorni è un’affermazione impopolare, ma questo sdegno antiolandese, nato dopo gli atti di vandalismo di Roma (a piazza Campo de’ Fiori e a piazza di Spagna), mi lascia tanto, tanto perplessa. E non capisco il senso di andare a manifestare di fronte all’ambasciata olandese. Mi ricorda un po’ – e sicuramente mi sbaglio – la pretesa, dopo il massacro di Parigi, di sentire l’esplicita condanna da parte di ogni musulmano che si incontrava. Cinquecento olandesi ubriachi e notoriamente teppisti scatenano la loro ottusa (e alcolizzata) rabbia contro una fontana del Bernini e ora ci aspettiamo un autodafé da ciascun cittadino neerlandese. Io ‘sta cosa non la capisco, anche perché ci sono state decine di dichiarazioni di esplicita riprovazione, condanna, biasimo, imbarazzo da parte di giornalisti e politici olandesi. E come aspettarsi altro? E’ evidente che i cinquecento (o mille) ubriaconi violenti non rappresentano l’Olanda, che è un paese rispettabile, democratico e pieno di contraddizioni come tutti gli altri paesi, occidentali e non.

Tutta questa vicenda dolorosissima mi lascia perplessa perché ripropone, in ciascun programma del pomeriggio che mostra riprese ravvicinate alle fratture del travertino, una trita battaglia tra gli italiani civilizzati e le orde barbariche che scendono dal nord. Mentre, se si dovesse fare il confronto tra Italia e Olanda, lo si dovrebbe fare paragonando gruppi omogenei: 500 teppisti italiani ubriachi sono migliori di 500 teppisti olandesi ubriachi? Gli italiani avrebbero preso di mira solo beni non appartenenti al patrimonio culturale o di minore valore identitario? Insomma, questa collera collettiva sembra motivata non tanto (o almeno non solo) dal fatto che siano stati fatti danni su una fontana del seicento ma piuttosto dalla circostanza che l’oltraggio sia stato perpetrato da un gruppo riconoscibile con il quale ce la possiamo prendere, lavando così la cattiva coscienza collettiva dell’italica incuria sul patrimonio culturale, attraverso il sacrifico di un capro espiatorio straniero.

E’ fin troppo facile elencare i casi in cui non si percepisce lo sdegno collettivo di fronte alle ordinarie devastazioni compiute ogni giorno da cittadini italiani singoli o associati. E non mi riferisco solo a quelle commesse da soggetti astratti e lontani dal cittadino come le amministrazioni o i governi (che da questo punto di vista non ci hanno fatto mancare nulla). Ma anche da quelle piccole, innocue, innocenti perpetrate ogni giorno da tutti e da ciascuno e che vanno dal minuto abuso edilizio per chiudere il terrazzino della cucina, fino all’arrampicarsi sulle rovine del Palatino, dopo aver forzato cancelli e recinzioni, per festeggiare lo scudetto della squadra del cuore (evento che non produsse un disastro ma fruttò danni riparati grazie alle risorse pubbliche). Poi ci sono le tag (brutte oltre che incomprensibili) sui muri di edifici pubblici e privati, antichi e moderni, ma anche l’insofferenza di cittadini e amministratori nei confronti delle opere di scavo (alle quali, peraltro, sono obbligati) degli archeologi. Senza dimenticare l’uso improprio a cui la stessa Barcaccia di Bernini e tante fontane di Roma sono sottoposte ogni estate quando la canicola le trasforma in vasche per il pediluvio.

Io credo che quanto è accaduto in piazza di Spagna l’altro giorno non sia stato un attacco premeditato al nostro patrimonio culturale, concetto probabilmente sideralmente lontano da quei teppisti, ma un più banale problema di ordine pubblico scaturito dal fatto che si è sottovalutato l’effetto che potevano avere alcune centinaia di etilisti sguinzagliati in un centro storico fragile e cagionevole come quello romano. Allo stesso modo gli episodi di ordinario degrado sul nostro patrimonio culturale sono causati dall’inadeguatezza della nostra formazione civica, dal nostro scarso senso di appartenenza a uno stato e dall’insufficienza del sistema di controlli e sanzioni. Tutto ciò (gli atti di vandalismo esogeni e quelli endogeni) colpiscono l’essenza materiale delle nostre città, ma anche il diritto dei cittadini (vittime e carnefici allo stesso tempo) di poter contare su accettabili livelli di qualità della vita.