I vizi degli altri

Roma. Interno notte. Un giovane impiegato della compagnia telefonica ha il compito di assicurarsi che le conversazioni sull’interurbana per Genova non siano disturbate, e così si inserisce in una telefonata in corso. Da un lato dell’apparecchio, a Genova, una donna; dall’altro lato, un uomo, un ministro, il relatore di un decreto che sarebbe stato approvato il giorno seguente.

– Sei tu, cara?
– Sì (segue una conversazione di carattere familiare)
– Guarda che domani sarà approvato un provvedimento catenaccio di carattere finanziario che avrà enorme ripercussione in Borsa. Questi titoli (li enumera) perderanno tanti punti, e altri ne guadagneranno altrettanti, compresi i titoli di stato. Hai capito?
– Perfettamente.
– Tu domani mattina dovresti vendere i titoli del primo gruppo e comprare il maggior numero possibile degli altri. Avverti tuo padre, i miei familiari, tutti i parenti in modo che facciano la stessa operazione!
– Che bella cosa! Come sono contenta!

Il giovane telefonista, insospettito, trascrive la telefonata, ne annota numeri, provenienza e orari. La mattina seguente porta la trascrizione a Palazzo Braschi, sede del ministero dell’Interno, da dove finisce sul tavolo di Giolitti. Al giovane viene imposto il silenzio; nel pomeriggio Giolitti si reca personalmente alla Camera per smascherare l’incauto ministro, invitandolo a un comportamento più onesto e trasparente, e rinviando l’approvazione del provvedimento ad altra data. Fu così che il liberale Giolitti intuì l’enorme potenziale di quel genere di controllo – forse ancora scottato dallo scandalo della Banca Romana – e istituì un servizio di intercettazione telefonica presso il ministero dell’Industria. Era il 1903, e nasceva così il primo Servizio di Intercettazione telefonica in Italia. (1)

Nel nostro paese si fa un uso scomposto delle intercettazioni sui media, si pubblica qualsiasi cosa senza alcuna selezione e non esiste una distinzione tra ciò che è penalmente rilevante e ciò che non lo è, mentre il segreto istruttorio ha smesso di esistere in una corsa dissennata al principio di precauzione applicato alla vita politica. La pubblicazione delle intercettazioni telefoniche si è trasformata in un formidabile strumento di osservazione della morale pubblica e privata, con cui si confonde il pubblico interesse con l’interesse del pubblico. Il dibattito sull’uso improprio delle intercettazioni sui giornali sembra quindi essere giustificato dall’uso sconsiderato che se ne è fatto fino a oggi.

Le intercettazioni sono diventate il nostro piacere proibito, e il fatto che siano così severamente regolate dalla legge attenua il senso di colpa per quella nostra intromissione nelle vite altrui. La violazione della legge è irrilevante, e il diritto di cronaca vince sempre contro una pretesa di riservatezza che qualcuno considera ingiustificata se non si ha niente da nascondere. Forse perché le cose più compromettenti delle nostre esistenze – quelle che non vorremmo mai vedere pubblicate sui giornali – oggi si trovano sui nostri hard disk, e non nelle telefonate che facciamo. E così ci opponiamo all’accesso indiscriminato ai nostri file per esigenze di sicurezza, ricordandoci finalmente che esiste un diritto costituzionale alla riservatezza. Ma la pubblicazione delle intercettazioni ha anche un altro effetto.

Il processo penale ha sempre avuto l’ambizione di sottrarre i sospettati alla disumana mancanza di giudizio della piazza, affidandone la sorte a regole certe e individui che si distinguessero per intelligenza, saggezza, equilibrio. Il meccanismo, troppo spesso, non ha funzionato, e le pulsioni vendicative del popolo sono state soddisfatte lasciando esplodere il processo nel macabro splendore dei supplizi e degli squartamenti in pubblico. Le cronache degli ultimi anni sembrano riportarci a quel modello aspirazionale, anche se non serve più legare braccia e gambe del condannato a quattro cavalli. Oggi la piazza condanna comodamente da casa. I processi si fanno sempre meno nei tribunali e sempre più in televisione, sui giornali che ne dettano i tempi. Ma chi sono i giudici di questi processi pubblici? Da dove vengono? Chi sceglie le imputazioni? Nessuno potrà mai salvarsi da un giudizio sommario in cui si impone (ovviamente solo agli altri) lo standard etico di Pepe Mujica, l’ex capo di stato uruguaiano che rifiutava di abitare nel palazzo presidenziale per restarsene nella sua piccola fattoria alla periferia della città, dava il 90 per cento dello stipendio in beneficenza e per spostarsi usava il suo vecchio Maggiolino.

Oggi tutti rivendichiamo un diritto alla trasparenza assoluta della politica: è il mito dell’“uomo di vetro” che ritorna nella bocca degli sprovveduti, che non si avvedono del suo sapore totalitario. Ci siamo ormai assuefatti a questo lavacro pubblico di fatti privati, come se non riguardasse anche noi, e il pragmatismo vince sempre sui diritti (quando sono i diritti degli altri). Almeno fino a quando non ci ritroviamo indicizzati su tutti i motori di ricerca del pianeta, per avere parlato al telefono con la persona sbagliata nel momento sbagliato.

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1Il fatto e la trascrizione letterale della telefonata sono tratti da un oscuro libro di Ugo Guspini, L’orecchio del regime (Mursia, 1973), che racconta l’uso delle intercettazioni telefoniche durante il ventennio, e fa risalire a Giolitti, e a questo episodio, la nascita di un sistema di intercettazioni in Italia.

Foto di Danny