Einstein, Socci e la relatività delle teorie

Funziona così nelle grandi testate, figuriamoci nelle piccole o piccolissime. Che quando c’è la notizia si prova, se ne vale la pena, a commentarla. Ma passa un giorno, ne passano due: addio commento. Vale anche per Left Wing e la rilevazione delle onde gravitazionali: notizia della settimana scorsa, perché tornarci? All’università immagino e mi auguro che se ne parli ancora a lungo, ma sui giornali sono già uscite di scena.

A meno che. A meno che tu non t’imbatta, con un giorno di ritardo, in un’occasione propizia: nel commento di Antonio Socci, su Libero. Il quale Socci parte dalla scoperta dell’altro giorno e arriva di bel bello alla «certezza razionale dell’esistenza di Dio con la semplice ragione». E non è che ci arrivi da solo, lui. Ci arriva con Einstein, a colpi di citazioni. A me, in verità, ne basta una sola, che racchiude il senso delle osservazioni del grande scienziato (e dell’articolo di Socci): «La cosa più incomprensibile dell’universo è che esso sia comprensibile». Ed effettivamente: due buchi neri si prendono la briga di collidere. La cosa, certo, non può passare inosservata nemmeno nell’economia dell’universo. Il fatto è che però ad osservarla ci si mettono gli scienziati un miliardo di anni dopo. Cioè: i buchi neri si scontrano tanto tempo fa, quando la vita sulla terra non è neppure allo stadio iniziale, ma sollevano una tale canea di onde che quando queste arrivano dalle parti della via Lattea, proprio nei pressi del sistema solare, e bussano dalle parti del terzo pianeta della serie – quello azzurro: sì, insomma, il nostro – trovano già tutto apparecchiato per riceverle: le antenne, gli specchietti, il laser e tutto quanto. Se non è un miracolo questo.

Così, mentre tutti si buttano sulle conferme della fisica teorica, Socci trova «la conferma di quanto la Chiesa ha affermato nel Concilio Vaticano I: l’uomo con la semplice intelligenza può arrivare alla certezza dell’esistenza di Dio». Ora, San Tommaso con le sue cinque vie procedeva più avvertito di Socci: se la prova metteva capo al primo motore di tutte le cose, diceva proprio così, che la prova dimostrava l’esistenza del primo motore. Solo poi aggiungeva: «[primo motore] che chiamiamo Dio». Socci se ne dimentica. Dimentica di avvertire il lettore che la scoperta dell’altro giorno dimostra, se mai, la razionalità dell’universo. Se poi lui la vuole chiamare Dio, padronissimo. Ma non solo ci vuole un passo in più per arrivare al Dio dei cristiani (e questo in verità Socci lo sa benissimo e lo dice) ma un passo in più ci vuole pure per andare dalla razionalità dell’universo alla sua divinizzazione. Non son mica la stessa cosa. Né basta appoggiarsi all’incomprensibilità di questa razionalità, secondo il detto di Einstein. Per tre ragioni: che presento in ordine crescente di difficoltà, avvertendo che ci si può benissimo fermare alla prima.

Quella facile: uno vede subito che se una cosa è incomprensibile non per questo è divina. Che lo sia in via di fatto, o in via di principio, resta l’incomprensibilità una qualifica negativa. Ebbene, dire ad esempio di qualcosa che non è gialla, non vuol dire conoscerne il colore. Allo stesso modo, dire di qualcosa che non è comprensibile dice che cosa quella cosa non è, non certo che cos’è. Se dunque la razionalità dell’universo rimane un mistero (tale era per Einstein e, si parva licet, per Socci), non per questo possiamo servircene per giungere sino a Dio (ancor meno a un Dio uguale e preciso al Dio dei cristiani). È evidente che Socci gode da matto al pensiero di aver confutato gli atei, ma non li ha confutati proprio per nulla.

La seconda, quella un po’ più difficile: come potrebbe mai esser fatta una conoscenza della conoscenza (quella che ci manca, per cui la conoscenza è la cosa più incomprensibile dell’universo)? A conoscere la conoscenza si arriva sempre troppo tardi, perché quando ci si arriva, è da un pezzo che si conosce già. Dunque l’incomprensibilità di cui si stupiva Einstein – per il piacere di Socci – è un’incomprensibilità di principio, ed è equivalente all’impossibilità di guardarsi le spalle. Il che però significa che quel che non si riesce a comprendere non è da comprendere. Non è proprio fatto per essere compreso. E i passi che facciamo, stupendoci (Einstein) e credendo (Socci), appartengono più al senso che si vuol dare alla cosa, che non alla cosa stessa.

La terza ragione, infine, per solutori più che abili: la conoscenza e il conosciuto non sono come due anime gemelle, che la fortuna ha fatto incontrare; esistono invece l’una per l’altra solo se e quando si incontrano. Nessuno ha mai visto, infatti, una mente che non avesse già qualcosa per la testa, che non si fosse cioè già incamminata per il sentiero della conoscenza. Una mente del genere (una «tabula rasa» così, si sarebbe detto una volta) non esiste e non può esistere: sfido Socci – e già che ci siamo pure Einstein – a mostrarmene una. Essere una mente e conoscere sono una e la stessa cosa. Essere una mente fuori dall’universo della conoscenza, per entrarvi poi, e stupirsi di trovare ogni cosa al suo posto, è un racconto “teologico” fatto apposta per fare spazio al Dio che accorderebbe miracolosamente le cose a questa maniera. Ma la necessità del miracolo scompare se si tiene ben fermo che, in tanto esistono, la conoscenza e il conosciuto, proprio in quanto si incontrano. Così che, se non si fossero incontrati, nemmeno se ne sarebbero potuti rammaricare. È come dire: tutte le anime che esistono sono anime gemelle: gemellate con la conoscenza. E ora provate a stupirvene: va sempre così, immancabilmente. Il che non vuol dire, ovviamente, che le nostre care menti non possano prendere grandi cantonate. Ma quando sbagliano, sbagliano sempre, necessariamente, rispetto a un vero che conoscono, altrimenti come potrebbero sapere di sbagliare? Dunque di nuovo: hai voglia a stupirti, lo fai sempre dentro la luce della verità.

C’è insomma dell’incomprensibile, e però c’è sempre comprensione. Poi ci sono i frettolosi, che corrono subito a Dio per eliminare uno dei termini in cui noi da sempre ci muoviamo. Rovinando così, con i loro precipitosi costrutti metafisico-teologici, l’occasione propizia, ma non fortuita, che le onde gravitazionali hanno onorato, presentandosi dopo un miliardo di anni all’appuntamento con la strumentazione terrestre.