La via greca alla crisi bancaria

Se la crisi della Grecia nell’estate del 2011 fu la replica di quanto visto soltanto tre anni prima con il fallimento di Lehman Brothers, le apparenti difficoltà del Monte dei Paschi di Siena rischiano di diventare il terzo atto di questa tragedia. Più passa il tempo più diventa evidente che, nonostante la dura lezione che gli eventi del recente passato hanno dato a studiosi e responsabili di politiche pubbliche, continua a dominare il dibattito una visione distorta del funzionamento dei sistemi finanziari moderni. Eppure se c’è una cosa che la crisi finanziaria ci ha insegnato è che i sistemi finanziari sono istituzioni estremamente complesse e interconnesse tra di loro. Con il tracollo di Lehman Brothers questi molteplici (ma a volte invisibili) legami tra istituti di credito, fondi di vario tipo e imprese finanziarie sono diventati evidenti in tutta la loro complessità. Queste interconnessioni sono da sempre croce e delizia dei sistemi finanziari e le loro caratteristiche strutturali stanno alla base tanto del grado di efficienza e resilienza del sistema, quanto della sua fragilità. Sebbene le interconnessioni presentino non poche criticità e siano assai difficili da tracciare e ricostruire, il buon senso e l’esperienza di questi anni ci suggeriscono almeno due cose. Primo, la distruzione di un nodo ha tipicamente effetti molto ramificati. Secondo, se il soggetto finanziario in questione è di grandi dimensioni molto probabilmente svolge un ruolo nodale. Gli effetti della bancarotta di uno di questi soggetti possono essere di diversi tipi: una catena di fallimenti a valle, una crisi di liquidità in una cerchia più ampia, un aumento di rischio sistemico – quindi, non diversificabile – per tutti.

A complicare ulteriormente il quadro c’è il fatto che la dimensione non è tutto. Emblematico in tal senso è il caso della Grecia, che era un soggetto finanziario relativamente piccolo e il cui debito pubblico valeva poco più del 3% del debito sovrano dell’intera Unione monetaria europea, ma che ha scatenato un effetto sistemico di notevole portata, bloccato solo dal provvidenziale intervento di Mario Draghi e il suo ormai celebre whatever it takes.

Tutto questo porta a concludere che qualsiasi decisione su cosa fare non dovrebbe essere determinata da quanto siano meritevoli di punizione Mps e i suoi azionisti, e nemmeno dalla sua dimensione, ma da quali sono le sue interconnessioni finanziarie. Anche senza possedere dati disaggregati sul suo bilancio, se ne possono individuare almeno di due tipi. Una prima interconnessione corre lungo i rapporti interbancari fra Mps e le altre banche italiane ed europee. La seconda linea di potenziale contagio passa invece attraverso l’elaborazione delle informazioni da parte degli operatori di mercato. E questo pone ulteriori problemi, anzitutto per quanto riguarda quegli operatori di mercato che hanno informazioni corrette sull’interconnessione tra Mps e altre banche italiane, e quindi speculano contro i titoli di queste ultime anticipando l’effetto dell’eventuale difficoltà della banca toscana. E poi anche per il formarsi di credenze su interconnessioni che in realtà non esistono, ma che si autoavverano. La concreta probabilità che la credenza in tali connessioni si dimostri fondata dipende infatti soltanto dal numero dei credenti.

Data la mancanza di una pragmatica e sicura guida politico-istituzionale che contraddistingue l’Unione monetaria, la direttiva BRRD (che prevede l’obbligo di bail-in e quindi la distribuzione di eventuali perdite su azionisti, obbligazionisti e correntisti) funge da catalizzatore di credenze almeno quanto lo è stato, nel caso della Grecia, il Patto di Stabilità e Crescita. L’idea secondo cui una crisi bancaria verrà sempre trattata come un problema di un singolo istituto e non verrà mai affrontata come un problema sistemico fa il pari con l’idea – drammaticamente già vista all’opera qualche anno fa – secondo cui una crisi finanziaria pubblica vada sempre trattata come problema di un singolo stato membro e non come un problema di tutta l’Unione monetaria. Sono state le resistenze al salvataggio della Grecia in nome dei trattati a scatenare gli attacchi contro l’eurozona, e sono le resistenze a una soluzione di sistema del problema di Mps che stanno scatenando il panico bancario in Italia. Trattare ogni caso, sia esso legato a un istituto di credito o all’insolvenza di uno stato membro, come fosse un silos verticale isolato dal resto dell’Unione, soprattutto alla luce delle connessioni di cui sopra, è quindi una strategia che non può avere successo perché contribuisce al diffondersi dell’incertezza e crea una generale sensazione di sfiducia, nemici del buon funzionamento del mercato unico.

La questione è delicata e andrebbe affrontata con maggiore saggezza. Rispetto agli effetti di interconnessione, le autorità pubbliche sono investite di grandi responsabilità. Fra queste c’è sicuramente la necessità di intervenire per inibire il più possibile gli effetti di anticipazione e di creazione di meccanismi di propagazione dovuti ai mercati. Lasciare questo livello globale di responsabilità a negoziati caso per caso è distruttivo, come i fatti di queste ultime settimane ci stanno mostrando con sempre maggiore chiarezza. Visto in quest’ottica, il rapporto fra rispetto delle regole e preservazione della stabilità finanziaria assume quindi una connotazione diversa.

Naturalmente non ci sfugge che al solo parlare di rischio sistemico taluni vedano di nuovo il pericolo che si finisca per salvare ancora una volta i cattivi soggetti, alimentando l’azzardo morale. Questo atteggiamento però è sorprendente. I sistemi reticolari interconnessi con alcuni grandi nodi “troppo grandi per fallire” non sono un’opinione o un’ideologia, ma soltanto la conseguenza di quelle politiche che (giustamente) raccomandano l’apertura dei mercati, l’integrazione finanziaria, la creazione di grandi soggetti globali. E proprio per questa ragione in un sistema di questo tipo la minaccia di fallimento non è credibile, nemmeno se scritta nelle Costituzioni o nelle leggi come è stato fatto in Ue. Se davvero si vogliono punire i cattivi e salvare i buoni, la disciplina dell’azzardo morale andrebbe interamente ripensata. Per esempio, il fallimento di un nodo centrale – sia esso un paese o una banca – potrebbe essere assorbito a condizione che siano prima recise le sue interconnessioni vere o presunte, cioè erigendo adeguate barriere protettive dei soggetti potenzialmente collegati. Sempre più evidente che ad impedire di muoversi in questa direzione è il gioco di veti più o meno palesi degli Stati membri. Così come con la Grecia, gli ostacoli ad una soluzione intelligente e pragmatica sembrano dipendere sempre più dagli interessi confliggenti dei vari governi nazionali. La polemica populista sui presunti disastri generati dall’UE sembra quindi piuttosto fuori fuoco. L’intervento di Draghi nell’estate del 2012, che ha bloccato una crisi che stava per travolgere l’intero continente, casomai dimostra che le istituzioni comunitarie – più che il problema – possono rappresentare una soluzione.